Nel 2018 un aspirante pentito rivelò che alcuni esponenti della criminalità locale volevano portare una squadra dell'hinterland in serie D per truccare le partite e puntarci di sopra
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Non per amore dello sport, né per quello dei tifosi. Il progetto che alcuni esponenti della malavita di Cosenza avrebbero coltivato nel 2018, passava dai successi di una squadra di calcio dell'hinterland, all'epoca iscritta al campionato di Seconda categoria. L'idea sarebbe stata quella di investire per spingerla in alto, fino alla Serie D. Tornei minori, che si giocano lontani dai riflettori, ma che possono riservare buoni affari. È da quel campionato in su, infatti, che il pallone diventa anche affare da bookmaker. Il piano, insomma, era quello di vendersi le partite dopo averci scommesso di sopra.
A svelare i retroscena di questo progetto, probabilmente ancora in via di realizzazione, è stato sei anni fa un aspirante pentito, A.C., all'epoca trentenne e con un passato da rapinatore e pusher per conto del clan Lanzino. È lui uno dei primi, se non il primo in assoluto, a rivelare ai carabinieri i contorni del "Sistema Cosenza", fin lì ancora sfumati. Racconta loro gli assetti allora attuali dei clan, gli accordi stipulati in tema di narcotraffico e diversi episodi inediti di vita criminale della città relativi a furti, rapine, estorsioni e usura.
In tal senso, quello legato al calcioscommesse è solo uno dei tanti e a esso sono collegate anche rivelazioni sul giro di puntate clandestine su siti non sottoposti a controllo dai Monopoli di Stato (i cosiddetti .com). «Sono siti di proprietà di società che hanno sede all'estero - spiegava l'aspirante collaboratore ai carabinieri - Tali società ne affidano la gestione, in una determinata porzione di territorio, a un soggetto chiamato "Master" che a sua volta consente a diversi centri scommesse di utilizzare il sito in questione. Il gestore del punto scommesse trattiene poi il 40% degli utili sulle giocate e corrisponde al "Master" il rimanente 60%».
Quando A.C. decide di vuotare il sacco, lo fa da incensurato, pressoché sconosciuto alle cronache e agli stessi investigatori. A spingerlo sulla strada del pentimento, sostiene, è un debito di droga contratto con l'organizzazione - quattordicimila euro - che non riesce a onorare. Buona parte delle sue dichiarazioni offrono riscontri a quelle di vecchi pentiti (Silvio Gioia) e troveranno conforto anche nelle confessioni successive di Giuseppe Zaffonte e Luciano Impieri. A differenza loro, però, A.C. non comincerà mai un percorso di collaborazione con la giustizia. Questa, però, è un'altra storia.