Come previsto, la Calabria finisce in lockdown. Soltanto in altre tre regioni italiane il rischio Covid è considerato tanto pericoloso da costringere al blocco degli spostamenti e alla chiusura di quasi tutte le attività: Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta. Ma mentre al Nord il motivo risiede nella diffusione sempre più incontrollata del contagio, la Calabria finisce agli arresti domiciliari perché ha un sistema sanitario talmente arretrato, fatiscente e sottosviluppato da non garantire alcuna capacità di tenuta dinnanzi all’emergenza pandemica, nonostante i numeri contenuti che fa registrare l’epidemia da queste parti. E allora a nulla serve rimarcare che dal Pollino allo Stretto c’è una delle incidenze più basse di contagiati rispetto al numero di residenti.

13 anni di commissariamento

A nulla serve ricordare che, dall’inizio della pandemia, in totale si sono registrati, ad oggi, poco più di 6mila casi positivi, con 125 vittime complessive su circa 2 milioni di abitanti.

Quello che fa davvero paura, in Calabria, non sono i numeri della pandemia ma quelli dei libri contabili di un sistema sanitario reduce da quasi 13 anni di commissariamento, che ha fatto peggio della politica clientelare e speculativa dalla quale, in teoria, lo doveva proteggere.

L’unica strategia messa in atto sino a quando la pandemia da Coronavirus non ha svelato completamente l’inganno, è stata quella di mulinare un machete che tagliasse spese e servizi essenziali per tentare di mettere ordine in conti bombardati da sprechi decennali che hanno aperto una voragine di 213 milioni di euro nei conti di Asp e ospedali pubblici, così come accertato appena un mese fa dal Tavolo Adduce, l’organismo interministeriale che supervisiona l’andamento del piano di rientro dal debito.

Salvo poche eccellenze sanitarie, che rendono ancora più grottesco il contesto, ai calabresi, per curarsi qualcosa che sia più di un’unghia incarnita, non resta che andare in altre regioni d’Italia, a cominciare proprio dalla Lombardia che oggi condivide con la Calabria la sorte del secondo lockdown dopo quello di marzo.

I numeri delle terapie intensive

Patetico, dunque, il tentativo della Regione di riscrivere i numeri delle terapie intensive, ritoccando con il favore delle tenebre, come è avvenuto ieri, il numero di letti a disposizione. «Non vanno contati i letti occupati dai i pazienti sottoposti a ventilazione non invasiva, ma solo quelli che ospitano malati intubati», hanno spiegato, in un estremo tentativo di convincere il Governo a non chiudere tutto anche qua giù. E patetiche appaiono le dichiarazioni del presidente facente funzioni, Nino Spirlì, che ha definito la decisione di Palazzo Chigi come «il tentativo di piegare la schiena ai calabresi, che non si inginocchieranno neanche questa volta, come non hanno mai fatto». Retorica un tanto al chilo destinata ad essere assorbita senza conseguenze dalla mancanza totale di credibilità di una classe dirigente che invece di assumersi finalmente le proprie responsabilità e rimboccarsi le maniche per rimediare, continua a imputare a altri e altro - dal destino cinico e baro, al piove governo ladro – le colpe che non ha il coraggio, la forza e l’onestà di assumersi. E non si venga a dire che Spirlì si trova dove si trova solo per un tragico caso, perché ora che c’è, è lui la Regione, è lui la personificazione di un fallimento che non riconosce mai se stesso nonostante l’evidenza dello schianto.

I pochi posti letto

Lo stesso tonfo che riecheggia nella vergogna degli ospedali che non ci sono e quando ci sono ti fanno scappare via con le mani che artigliano i capelli. Nella sconcezza dei posti letto insufficienti, dei corridoi dai muri scrostati e sporchi dove attendere per un’intera giornata una banale visita ambulatoriale. Nello scandalo dei macchinari da milioni di euro acquistati e lasciati invecchiare negli scantinati con ancora il cellophane intorno, lo stesso schianto che rimbomba nello schifo di migliaia di assunzioni clientelari e nell’oscenità delle Asp commissariate per mafia.

Ecco, per questo la Calabria è zona rossa, ma di vergogna.