Nell’inchiesta sulla criminalità a San Siro emerge una forte presenza dei clan. La Madonna della montagna tatuata sul braccio dell’uomo che gestisce i parcheggi dello stadio e guarda con ammirazione a un calabrese della vecchia guardia: «Se sbagli con lui sei fregato, i sanlucoti sono cattivi»
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Non solo Bellocco. Dalle pagine dell’inchiesta Doppia curva, che racconta la gestione criminale di un pezzo degli spalti di San Siro, spuntano nomi che si iscrivono all’aristocrazia mafiosa. Cognomi, più che altro, che spiegano come Milano sia diventata centrale per il gotha della ’ndrangheta.
Per tenere insieme i pezzi che fotografano questa presenza bisogna seguire Giuseppe Caminiti, 45 anni, originario della Piana di Taurianova. Suo zio era un pezzo grosso del clan di Seminara: esibiva una Bentley come status symbol. Si lega in qualche modo alle auto anche la fortuna milanese di Caminiti: è l’uomo dei parcheggi del Meazza. Assunto come dipendente della ditta che li gestisce, in effetti quel lavoro sta in piedi – stando alle sue conversazioni – grazie ai suoi legami con i calabresi. Soprattutto uno: Giuseppe Calabrò, il Fantasma o U Dutturicchiu, un 74enne mai condannato per reati di mafia che esibisce però parentele e contatti nelle alte sfere dei clan aspromontani ed è imputato per il sequestro di Cristina Mazzotti, avvenuto nel 1975.
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Caminiti parla spesso di Calabrò. Mentre i poliziotti ascoltano, incontra altri uomini legati alle cosche reggine. C’è uno dei figli naturali del boss Paolo De Stefano di Reggio Calabria. C’è un altro personaggio «dal rilevante spessore criminale» imparentato con la famiglia Molinetti del quartiere Archi. Tutti frequentano Milano e con tutti Caminiti intrattiene buoni rapporti. Nessuno, però, ha l’ascendente di Calabrò, «il numero uno dei calabresi».
A un conoscente, l’uomo dei parcheggi ricorda che il Fantasma è «Lo zio di… del giocatore… i Romeo» per chiarire quale sia il potere «insito nel sanlucota», appuntano gli investigatori. Caminiti, riferendosi a Calabrò, spiega: «Lui c’ha la Francia in mano… c’ha tutto quello che vogliamo… lui è il re della Costa Azzurra».
Nei discorsi intercettati dagli investigatori i nomi delle famiglie mafiose si incrociano con gli affari legati al predominio sulle curve. Quella dell’Inter, certo. Ma anche gli ultrà rossoneri non sono immuni da mire espansionistiche e infiltrazioni. Il solito Caminiti si confida a un amico sulla «storia dello stadio» e gli racconta «la vicenda relativa al progetto di Domenico Vottari, leader del gruppo ultrà del Milan Black Devil, di accaparrarsi spazi nello stadio meneghino».
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Vottari, il cui nome era rimbalzato sulla stampa nazionale, ha sempre negato e ribadito di non essere né vicino a vicende criminali né legato a gruppi ultrà. Per gli interlocutori, però, i Vottari avrebbero avuto «il Milan in mano», ma «hanno mollato» a causa dell’attenzione delle forze dell’ordine. Sono conversazioni captate nei primi mesi del 2020, quando la temperatura dei rapporti tra mafia e tifo è torrida nella curva rossonera mentre la Nord è più stabile, affidata alla leadership storica di Vittorio Boiocchi, che sarà ucciso in un agguato due anni più tardi.
Quello che non cambia, in questi dialoghi, è il riferimento costante a Calabrò e al suo profilo criminale. Ancora Caminiti: «Comunque lui è della vecchia guardia bro’… uno dei vecchi boss, capito? Se uno sbaglia con Peppe è fottuto, lo sai o no? I sanlucoti sono cattivi». Calabrò, che non è indagato nell’inchiesta, è per i magistrati antimafia di Milano lo schermo che permette a Caminiti (e al suo datore di lavoro Gherardo Zaccagni) di prosperare nei parcheggi di San Siro.
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Nel caso del presunto tentativo di scalata dei Vottari alla curva del Milan, sempre secondo Caminiti, Calabrò «aveva domandato» delle intenzioni dei calabresi «e si era detto finanche pronto ad allontanare dalla curva dell’Inter personaggi come Andrea Beretta e Vittorio Boiocchi, che allora dominavano». Prima i calabresi, insomma. E di calabresi parla sempre Caminiti con Zaccagni per rappresentargli i rapporti di forza tra i clan: la ’ndrangheta più forte è quella «della montagna»: «Conta che ci sono quelli che contano giù a Reggio… in tutti i cosi… però tutto parte dalla montagna», cioè da San Luca. Il riferimento alla Madonna della Montagna è per Caminiti così profondo che finirà per tatuarselo sulla pelle.
A settembre 2020, evidenziano gli inquirenti, «per testimoniare la propria vicinanza alla realtà mafiosa calabrese», il 45enne si fa tatuare sul braccio «l’immagine della statua della Madonna di Polsi, simbolo notoriamente venerato dagli ’ndranghetisti: «La Madonna col Gesù bambino… quella del mio paese… di San Luca… tanta roba, eh», gioisce al telefono. La ’ndrangheta sulla pelle nel motore economico del Paese, dove ricorrono i cognomi del gotha del crimine calabrese, il tatuaggio simbolico nella pancia di uno stadio in cui la mafia e il tifo violento si abbracciano con una zona grigia fatta (anche) di artisti e influencer. Avvinti in nome del denaro, che a Milano significa molto. Forse troppo.