Sei chili d’esplosivo, innesco con radiocomando. Un ordigno letale. Hanno pochi dubbi gli inquirenti: è un pezzo dell’artiglieria custodita da Filippo Di Miceli, quindi dall’armiere di Francesco Antonio Pardea, l’aspirante boss del redivivo clan dei Ranisi. I carabinieri - coordinati dal procuratore di Vibo Valentia Camillo Falvo e dal pm Filomena Aliberti - tornano tra i casolari di Piscopio dove avevano già recuperato un impressionante carico di armi e ritrovano anche quel pezzo mancante, forse il più prezioso e micidiale.

Potrebbe trattarsi - e per questo il canale di comunicazione tra la Procura vibonese e la Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri è sempre attivo - dell’ordigno di cui parla colui che per anni è stato una sorta di fratello maggiore acquisito per lo stesso Pardea, Bartolomeo Arena, divenuto da uomo libero collaboratore di giustizia circa due mesi prima il deflagrare della maxi-inchiesta “Rinascita Scott”. E potrebbe essere proprio quella la bomba che Giuseppe Soriano - figlio di Roberto (il giovane capo del clan di Filandari vittima della lupara bianca, il cui omicidio è contestato nell’operazione colossal di Dda e e carabinieri) - avrebbe chiesto ai Ranisi più avvezzi all’uso delle armi: Francesco Antonio Pardea e Mommo Macrì.

In seguito, fa mettere a verbale Arena, egli assistette ad un colloquio tra Pardea e Soriano, al termine del quale il primo gli spiegò: «Mi hanno chiesto una bomba, quanto gliela devo vendere?». Quell’ordigno, chiariva all’attuale collaboratore di giustizia, gli era stato regalato. La risposta di Arena fu: «E ti regoli tu in base all’amicizia, qualcosa…». I carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo Valentia, che assistono il pm De Bernardo durante l’interrogatorio, a questo punto, domandano: «Hanno detto pure che cosa ci dovevano fare?». La risposta: «Non lo disse chiaramente, ma sicuramente doveva fare esplodere Peppe Accorinti». Alla fine Pardea decise che avrebbe chiesto per quel congegno esplosivo ad alto potenziale «3-4.000 euro». Alla fine, però, «il tutto svanì per il fatto dell’operazione Nemea».

Si tratta del blitz di Dda e Carabinieri che l’8 marzo del 2018 colpì al cuore il clan Soriano e mise a nudo i propositi di vendetta mai sopiti nei confronti di Peppone Accorinti, il boss di Zungri, ma anche verso i carabinieri della stazione che non davano tregua agli affari illeciti della famiglia di Pizzinni.

Il pm De Bernardo, incalza ancora e ripete con più convinzione la domanda già posta dai carabinieri: «Che cosa ci dovevano fare con questa bomba?». E Bartolomeo Arena: «Io suppongo avesse individuato dove dormiva Peppone Accorinti, in quel periodo per dispetto dormiva nella zona i Filandari, a loro questo era che dava fastidio, secondo me volevano collocare la bomba proprio per farlo esplodere. Ci fu pure… mi disse che Leone Soriano voleva la bomba per mettergliela al maresciallo dei Carabinieri di Filandari, ma quando invece venne lui là capimmo che non per questo motivo, ma bensì per il fatto di Peppone Accorinti. Perché lui non si prestava tantissimo… con lo zio erano spesso pure in scontro, lui si voleva vendicare della morte del padre, non volevano perdere tempo a prendersela con un carabiniere insomma, loro, il loro intento era quello».