I giudici di Corte d'assise nella sentenza: «Dai coniugi Vinci-Scarpulla plurime falsificazioni dichiarative e smentiti dai dati istruttori». Le intercettazioni costano l’ergastolo a Rosaria Mancuso e Vito Barbara.Ritenute inattendibili le dichiarazioni di Emanuele Mancuso
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La Corte d’Assise di Catanzaro, presieduta dal giudice Alessandro Bravin, ha depositato le motivazioni della sentenza legata alla vicenda dell’autobomba di Limbadi costata la vita il 9 aprile 2018 al biologo Matteo Vinci. Accanto alle condanne all’ergastolo per Rosaria Mancuso, 65 anni, e per il genero Vito Barbara, di 29 anni – quali mandanti dell’attentato – si sono registrate delle assoluzioni per specifici capi di imputazione, con Lucia Di Grillo, 31 anni (figlia di Rosaria Mancuso), condannata a 3 anni e 6 mesi di reclusione (in luogo dei 12 anni di carcere chiesti dal pm).
In secondo luogo il reato di tentato omicidio – riferito ad un episodio del 30 ottobre 2017 – è stato riqualificato dalla Corte nel più lieve reato di lesioni personali. In particolare, Domenico Di Grillo, Vito Barbara e Rosaria Mancuso erano accusati e sono stati ritenuti responsabili di aver colpito con un’ascia ed un forcone Francesco Vinci, con Rosaria Mancuso che avrebbe incitato gli altri due gridando: “Ammazzatelo, ammazzatelo”. I colpi provocavano a Francesco Vinci un focolaio emorragico, una frattura scomposta della mandibola, una ferita al cranio, una ferita al viso, una vasta lacerazione della mucosa interna della guancia e ferite alle mani.
Vito Barbara, Domenico Di Grillo (marito di Rosaria Mancuso, condannato a 10 anni e 5mila euro di multa) e Lucia Di Grillo sono stati invece ritenuti responsabili della detenzione illegale nel 2018 e della ricettazione di una pistola revolver marca Colt calibro 38, arma da ritenersi clandestina, oltre che della detenzione illegale di un fucile a pompa marca Beretta calibro 12 con matricola punzonata e della detenzione illegale di numerose munizioni, alcune caricate a pallettoni.
Non ha retto, invece, l’accusa di estorsione aggravata dalle modalità mafiose, mossa a Domenico Di Grillo, al genero Vito Barbara, a Lucia Di Grillo, e a Rosaria Mancuso. Nello specifico, gli imputati – secondo l’accusa – avrebbero intimato a più riprese ai coniugi Vinci-Scarpulla di cedergli il fondo del quale erano proprietari sito a Limbadi in contrada Macrea.
Stessa formula assolutoria anche per il reato di minaccia aggravata dalle modalità mafiose contestato a Vito Barbara, Rosaria Mancuso e Domenico Di Grillo in relazione alle pressioni rivolte nei confronti di Francesco Vinci e Sara Scarpulla a cedere i loro terreni. Domenico Di Grillo è stato quindi assolto dall’accusa di aver puntato una rivoltella all’indirizzo di Francesco Vinci il 30 ottobre 2017 nei pressi dei terreni di Limbadi di contrada Macrea. Per tale episodio Domenico Di Grillo, Rosaria Mancuso e Vito Barbara incassano l’assoluzione anche per il reato di detenzione illegale e porto in luogo pubblico della pistola revolver.
Atti alla Procura per i coniugi Vinci-Scarpulla
La Corte ha disposto la trasmissione di copia degli atti al pm «per le determinazioni di competenza a carico di Pitzianti Mariano, consulente tecnico della difesa, Scarpulla Sara e Vinci Francesco».
È rimasto accertato, secondo i giudici, che il 12 febbraio 2014 Gaetana Vinci – cugina di Francesco Vinci – ha alienato con atto del notaio un proprio terreno a Lucia Di Grillo che l’ha acquistato per la somma di poco più di settemila euro versata in contanti da Rosaria Mancuso. «La ricostruzione dei fatti offerta in dibattimento – scrivono i giudici in sentenza – contrasta, già in origine, con il dato documentale che consegna al processo il dato storico di un preliminare di vendita risalente addirittura al 1999, nel corpo del quale Gaetana Vinci si impegnava a vendere a Rosaria Mancuso. Dunque, il racconto di Rosaria Scarpulla sconta, inevitabilmente, una visione affatto unilaterale degli eventi, posto che se poteva ignorare gli accordi solo verbali tra i querelanti e Gaetana Vinci, di certo la Mancuso era conscia dell’esistenza del preliminare di vendita, la cui ricorrenza parimenti ignorava la controparte».
Ed ancora: «La recinzione messa in piedi dal Vinci sconfinava nel terreno divenuto di proprietà di Lucia Di Grillo con atto pubblico. Sul tema dell’attendibilità della Scarpulla, in controesame, emergeva una – seppur parziale – clamorosa smentita alle accuse mosse dalla donna contro i componenti della famiglia Di Grillo».
Il bastone e le bugie
«Invero la Scarpulla – scrivono i giudici in sentenza – dopo l’eclatante omicidio del figlio del 9 aprile 2018, aveva denunciato il 27 maggio successivo, quale ennesimo atto di scopelismo e dunque di implicita minaccia, il ritrovamento – che aveva avuto vasta eco mediatica – dinanzi alla sua abitazione di un bastone, ignorando che fosse stata la cognata Corso Pasqualina a lasciarlo inavvertitamente in quel luogo». Per contro, la conversazione intercettata del 25 maggio 2018 «attesta che la Scarpulla, divenuta consapevole della circostanza per averne appreso proprio dalla Cosco, si fosse invece affrettata – sottolineano i giudici in sentenza – a concordare con la cognata una versione da affidare alla stampa che riconducesse, comunque, l’episodio alle minacce del contrapposto nucleo familiare». “Tu basta che dici che di solito ne trovi e ne vedi sempre di bastoni” avrebbe suggerito Sara Scarpulla alla cognata.
«Corso Pasqualina, in corso di dibattimento, ha inteso perpetuare la menzogna – aggiunge la Corte in sentenza – atteso che dopo aver ricordato che i rapporti tra le famiglie Di Grillo e Vinci erano stati anche buoni nel tempo – tanto che la Mancuso aveva aiutato i coniugi Vinci nella piantumazione degli ulivi – chiamata in controesame a rievocare l’accaduto, raccontava di aver preso il bastone in campagna per pulire un pozzetto di scolo dell’acqua e di averlo poi appoggiato ad una sbarra di ferro, senza che la cognata nulla sapesse del fatto. E però il contrario – sottolineano i giudici – risulta dalle intercettazioni».
«La mistificazione operata dalla Scarpulla, proprio perché direttamente incidente sulla ricostruzione dei rapporti con i Di Grillo, rende evidente, in punto di genuinità e spontaneità narrativa – sottolineano i giudici – come la fonte non possa considerarsi effettivamente terza, né tanto meno disinteressata rispetto ai fatti in oggetto, vieppiù a considerare il dato di smentita alla sua tesi dettato dai contenuti sia del contratto di vendita del terreno del 12 febbraio 2014 che delle conversazioni oggetto di captazione all’interno del nucleo familiare Di Grillo».
«Nel corso dell’esame, la Scarpulla ha ulteriormente offerto altri dati ricostruttivi della vicenda che hanno subito smentita. La ricostruzione sui terreni contesi offerta dai coniugi Vinci-Scarpulla – ad avviso dei giudici – ha subito confutazione anche dai narrati di Gaetana Vinci e dai figli di costei».
I contrasti con i Di Grillo-Mancuso
Per la Corte d’Assise di Catanzaro, «non può sottacersi che la palpabile pressione mediatica creatasi intorno al caso, reiteratamente evocata nei colloqui dei Di Grillo/Mancuso e palesemente desumibile dalla conversazione della Scarpulla» con una giornalista «avesse reso il nucleo familiare dei Di Grillo particolarmente attento alle dinamiche di indagine anche in relazione all’annosa questione dei rapporti con i confinanti, che pure era finita sotto la lente degli inquirenti».
Per i giudici, inoltre, «è conclamato che Vinci Francesco, che pure avanzava pretese sul fondo della Vinci Gaetana, lungi dall’attivare un’azione giudiziaria, si fosse invece reso protagonista non solo dell’abusiva recinzione di parte dell’area, quanto della stessa materiale sottrazione dell’atto di vendita della cugina, mai restituito».
Erano quindi seguite reciproche denunce, negli anni, fra i Vinci-Scarpulla da un lato e i Di Grillo Mancuso dall’altro. «E però – scrivono ancora i giudici in sentenza – le dichiarazioni della Scarpulla in ordine agli incarichi legali rimasti inevasi per presunte pressioni, timori o infedeltà rappresentative, dettati talora dalla sola evocazione del cognome Mancuso sono rimaste smentite dal dato istruttorio». La «stessa Scarpulla, presente in aula, non ha riconosciuto» un avvocato quale suo precedente legale.
Nessuna tentata estorsione
L’accusa di tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose, mossa a Domenico Di Grillo, al genero Vito Barbara, a Lucia Di Grillo e a Rosaria Mancuso per la Corte non regge poiché innanzitutto «risulta smentito per tabulas che la porzione di terreno rilevante ai fini di causa fosse di proprietà dei Vinci, atteso che gli immobili già nella titolarità di Vinci Gaetana erano stati trasferiti alla famiglia Di Grillo nell’anno 2014 per atto pubblico conseguente a preliminare di vendita del 1991. E che tale fosse l’esclusivo oggetto di contesa è confermato dalla Scarpulla – sottolineano i giudici – nel richiamato colloquio» con una giornalista.
E per i giudici l’acquisto del terreno da parte dei Di Grillo è stato «regolare», mentre i Vinci- Scarpulla non potevano «vantare alcun diritto di proprietà su quelle porzioni di terreno». Per la Corte, quindi, «non sorprende che la tesi del tentativo di sottrazione delle terre sia un’asserzione autoreferenziale dei coniugi Vinci» perchè i giudici rimarcano «l’evidente inaffidabilità della Scarpulla allorchè la stessa ha inteso strumentalizzare la vicenda del ritrovamento del bastone in danno di Mancuso Rosaria. Lo stesso Vinci Francesco ha mentito nella ricostruzione della vicenda della rissa e dell’originariamente rubricato tentato omicidio».
Per i giudici «la tendenza al mendacio delle fonti è acclarata e le ragioni di interesse patrimoniale che avevano condotto i querelanti alla lunga querelle con i confinanti costituiscono collante narrativo inteso a dipingere un quadro di unidirezionale sopraffazione, che risulta smentito dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale, anche alla luce delle plurime denunce dei Di Grillo-Mancuso contro i Vinci-Scarpulla. La resistenza dei querelanti Vinci-Scarpulla non era dettata dalla rivendicazione di un diritto ma da una pretesa non azionabile, perché non riguardava la tutela della loro proprietà, ma la pretesa disponibilità del terreno della cugina. Tanto che i vari legali che si sono succeduti in aula hanno tutti negato di aver mai ricevuto incarichi di difesa o tutela da parte degli imputati, così smentendo la suggestione narrativa della Scarpulla in ordine al materializzarsi di una sorta di isolamento dettato dagli effetti della mera evocazione del nome dei Mancuso, che avrebbe condotto taluni professionisti ad abbandonare i coniugi al loro destino o a negare il loro contributo professionale. Così come è smentita la tesi secondo cui i coniugi Vinci – rimarcano i giudici – sarebbero rimasti titolari di una sorta di enclave territoriale, circondata dalla proprietà Di Grillo-Mancuso: il contratto di compravendita e le stesse deposizioni dei testi di polizia giudiziaria escussi sul punto attestano che i terreni di Vinci Gaetana, che erano adesi a quelli di Francesco Vinci, erano confinanti con altri e numerosi proprietari, diversi dai Di Grillo. Mentre il terreno dei Vinci-Scarpulla non aveva mai costituito oggetto nel tempo di rivendicazioni dei Di Grillo».
Il narrato delle parti lese smentito dai giudici
Per la Corte d’Assise, «conclusivamente, il narrato dei coniugi Vinci-Scarpulla risulta ampiamente ed oggettivamente smentito dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale: e ciò è ancor più evidente a considerare l’eccentricità dell’imputazione, posto che, ove davvero vi fossero stati atti emulativi dei Di Grillo funzionali ad un illecito impossessamento, tanto avrebbe dovuto riguardare quale vittima Vinci Gaetana. Il delitto contestato agli imputati è, dunque, insussistente».
Di Grillo non armato di pistola
La Corte in sentenza passa poi ad esaminare la lite e l’aggressione ai danni di Francesco Vinci. Contrariamente a quanto raccontato dalla parte offesa, per i giudici Domenico Di Grillo non era armato di una pistola. Ecco cosa scrivono i giudici in sentenza: «Il puntamento in aderenza al ventre di una pistola – così come riferito dalla Scarpulla – per impedire il movimento della vittima mentre si perpetuava l’aggressione, è modo di impiego eccentrico e inusuale, siccome disfunzionale rispetto alla necessità di poter colpire il corpo dell’avversario con l’altra mano – peraltro con arma bianca a dire della Scarpulla secondo quanto riferitole dal Vinci in ordine al ruolo di Di Grillo, armato di ascia – e di consentire al concorrente di fare altrimenti, pericoloso anche per il soggetto agente, che si espone così al rischio di essere disarmato o della accidentale esplosione del colpo». Ed ancora: «Le captazioni ed il dato documentale attestano che il Vinci aveva reso una ricostruzione parzialmente falsa dell’accaduto al fine di coinvolgere la Mancuso, in linea di continuità narrativa familiare con la vicenda del bastone evocata dalla Scarpulla e di ampliare ulteriormente la gravità della vicenda. La ragione del mendacio non è nuova: si è già avuta occasione di evidenziare le plurime aporie e falsificazioni dichiarative dei coniugi Vinci – sottolinea la Corte – intese ad offrire narrazioni esasperate degli eventi».
Da qui la riqualificazione del delitto (non si è trattato di un tentato omicidio ma di lesioni personali gravi), anche perché «è parimenti evidente che la ricostruzione del Barbara e del Di Grillo in ordine alla dinamica dei fatti sia ampiamente riduttiva, avuto riguardo alle gravissime lesioni riportate da Vinci ed al tenore inequivoco della confessione stragiudiziale contenuta nella conversazione tra Vito Barbara e la moglie». Da tale delitto è stata mandata assolta Rosaria Mancuso per non aver commesso il fatto.
L’autobomba e le responsabilità
Per i giudici della Corte d’Assise è rimasto accertato che per l’autobomba in cui ha perso la vita Matteo Vinci è stato usato un ordigno artigianale (percolato di potassio con alluminio confezionato all’interno di un involucro rigido) con un meccanismo di innesco impossibile da individuare in assenza di elementi utili a definirlo. La bomba è stata collocata fra il sedile di guida e la pedaliera in aderenza sotto la vettura e l’ordigno non si trovava sulla strada come sostenuto dalle difese degli imputati. Una “pipe bomb”, dunque, che può essere collocata in tempi brevissimi a mezzo di calamita ed è – ad avviso della Corte – un ordigno improvvisato e di fabbricazione anche “casalinga”, connotato da alta micidialità.
Francesco Vinci si è salvato – riportando gravissime ustioni e ferite – riuscendo ad uscire dalla vettura utilizzando il varco che l’esplosione aveva creato distruggendo il vetro dello sportello lato passeggero.
Sono le intercettazioni ambientali confessorie (lu pulizzamu avrebbe detto nelle captazioni) ad incastrare Vito Barbara mentre parlava con la moglie Lucia Di Grillo. Così come Rosaria Mancuso viene incastrata nel ruolo di mandante (entrambi condannati all’ergastolo) anche perché nelle intercettazioni si preoccupava con Vito Barbara dell’acquisizione delle telecamere da parte degli investigatori a seguito dell’attentato.
La Corte ha trasmesso gli atti alla Procura per il consulente tecnico della difesa Mariano Pizianti poiché lo stesso, ad avviso dei giudici, «è riuscito a fornire al dialogo un’interpretazione che va oltre il senso ad esso attribuito dallo stesso imputato Vito Barbara che ne era stato protagonista. L’interpretazione del consulente è fuorviante perché assolutamente decontestualizzata: di fatto una lettura creativa rispetto al testo».
Fra i collaboratori di giustizia ascoltati nel processo, invece, la Corte ha ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese sull’attentato da Emanuele Mancuso.
La pista sorianese
Infine la sentenza si sofferma pure sulla “pista sorianese” e potrebbe avere non poco peso in odine alle posizioni di Filippo De Marco e Antonio Criniti, 30 anni, entrambi di Soriano ed attualmente sotto processo nell’inchiesta “Demetra 2” che si sta celebrando con rito abbreviato. Nei loro confronti la Dda di Catanzaro ha già chiesto la condanna all’ergastolo. I due giovani di Soriano, secondo l’accusa, per sdebitarsi della cessione di sostanze stupefacenti per il costo di settemila euro avrebbero fabbricato e materialmente posizionato la micidiale bomba che ha fatto saltare in aria l’auto sulla quale il 9 aprile 2018 viaggiavano Matteo Vinci, deceduto, ed il padre Francesco Vinci, che è rimasto gravemente ferito.
Sul punto, però, i giudici della Corte d’Assise di Catanzaro scrivono in sentenza: «Il narrato incerto del collaboratore di giustizia Walter Loielo nemmeno è autonomamente in grado di supportare la pista sorianese in ordine alla provenienza dell’esplosivo destinato alla consumazione dell’attentato ai Vinci, ancora sostenuta in dibattimento dalla pubblica accusa, malgrado la chiara smentita già derivata all’ipotesi nella fase cautelare, alla luce dell’insuperato pronunciamento anche dei giudici di legittimità sulle posizioni di Criniti e De Marco». Per la Corte, inoltre, le «celle telefoniche di interesse investigativo escludono di poter ritenere dimostrato che i cognati Criniti e De Marco, venditori ambulanti, si trovassero insieme negli orari di interesse in cui è esplosa l’autobomba: il Gps sull’auto di De Marco consentiva di accertare come il mezzo non si fosse recato a Limbadi nella giornata del 9 aprile 2018».
Impegnati nel collegio di difesa gli avvocati: Giovanni Vecchio e Fabrizio Costarella per Vito Barbara; Giovanni Vecchio e Stefania Rania per Lucia Di Grillo; Francesco Capria e Gianfranco Giunta per Domenico Di Grillo; Francesco Capria e Mario Santambrogio per Rosaria Mancuso.
I coniugi Vinci Scarpulla erano invece assistiti dall’avvocato Giuseppe De Pace.