Ricorda molto Emanuele Mancuso: figlio di un boss pure lui e un bel po’ di eccessi giovanili. Poi la galera, il peso del tempo che vola via negli anni più belli, lontano dalla propria famiglia e, soprattutto, dai suoi figli. Ed è proprio a loro, i figli, che Antonio Accorinti, 43 anni, figlio del capomafia di Briatico Nino, rivolge il primo pensiero. «Vuole collaborare?», chiedono gli inquirenti. E Antonio: «Sì, intendo rispondere alle domande e manifesto la volontà di cambiare vita, di fare tutto quanto necessario per dare un futuro diverso non solo a me ma anche ai miei figli, di allontanarmi definitivamente dai contesti malsani che mi hanno condotto dove sono per fatti che nemmeno ho commesso».

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È il 19 maggio, in carcere a Cosenza, nel primo pomeriggio, si precipitano il pm antimafia Andrea Buzzelli e tre tra ufficiali e sottufficiali del Nucleo investigativo e della Compagnia carabinieri di Vibo Valentia, i reparti la cui attività investigativa ha costruito gli architravi della sontuosa inchiesta Maestrale-Cartagho, l’ultimo maxiblitz condotto sotto la guida di Nicola Gratteri prima della sua investitura quale procuratore capo di Napoli.

Un predestinato

«Non sono battezzato nella ‘ndrangheta, né io né i miei familiari. Posso dire – spiega Antonio Accorinti – che nessuno me lo ha mai proposto, anche perché ho un trascorso importante di tossicodipendenza». Non sgrava affatto la sua posizione, il neo collaboratore di giustizia, anzi. Questo, altro non è che l’incipit di una serie di interrogatori fiume nei quali circostanzierà, affiliazione formale o meno, la sua appartenenza alla criminalità organizzata. «Sino al 2007 – aggiunge – ho avuto un ruolo molto marginale perché mio padre aveva deciso di tenermi fuori da questo ambiente». Poi, però, al clan Accorinti e alla mala briaticese fu inferto un colpo tremendo: la maxioperazione Odissea, quando la Dda di Catanzaro e la Squadra mobile, misero per la prima volta in ginocchio la “cosca degli dei”. Prendere il posto alla destra del padre padrino alla luce degli eventi, per Antonio fu un fatto quasi necessario.

L’Olimpo della costa

E da lì comprese che «il vero boss di Briatico» - dice invece il 26 giugno – fosse effettivamente suo padre, Nino, e non, come riteneva da ragazzino, Pino Bonavita. Delinea l’olimpo nel quale il genitore dimorava: stava dalla parte di Luni Mancuso detto Scarpuni e si relazionava con Peppone Accorinti (il boss di Zungri), Francesco Barbieri (Cessaniti), Tonino La Rosa (Tropea), Pasquale Quaranta (Ricadi), Nazzareno Colace (Porto Salvo). Spiega, inoltre, come era organizzato il suo clan: c’era, ovviamente, Giuseppe Bonavita ad affiancare suo padre, almeno prima di una sorta di scissione nella mala briaticese, assieme al figlio Armando, a Giacomo e Marco Borello, Saverio Prostamo, Salvatore Muggeri e Giuseppe Comito, che divenne collaboratore di giustizia in seguito al suo coinvolgimento nei processi sulla guerra di mafia del 2011-2012.

Voti e controllo morale

Si mostra lucido, puntuale, si autoaccusa e accusa, Antonio Accorinti. Benché i primi verbali che la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha depositato agli atti del maxiprocesso Imponimento siano infarciti di omissis, emerge chiaramente come egli abbia preso parte o sia comunque stato testimone diretto ad azioni di fuoco. Parla di affari. Racconta – ad esempio – come egli, grazie alla società di navigazione controllata dalla sua famiglia, arrivasse a guadagnare addirittura «mille euro al giorno». Parla di politica. Dice che la sua famiglia appoggiò elettoralmente Francescantonio Stillitani, ex consigliere ed assessore regionale, oltre che già sindaco di Pizzo, «non a fronte di uno specifico compenso» ma per «ricambiare i favori ricevuti», ovvero l’assunzione di lavoratori graditi alla malavita o l’inserimento di ditte in odor di mafia nel giro di affari dei villaggi turistici. Si creava un sistema, diffuso, che il neo collaboratore di giustizia spiega in termini tanto suggestivi quanto efficaci: «Garantivamo protezione senza necessità di specifici compensi in relazione a singoli favori, ma in relazione al potere che ci derivava dall’avere il controllo morale sull’imprenditore, sui suoi beni e sulle sue attività».