VIDEO | La donna ricorda il padre Francesco Antonio Lascala e ringrazia Bologna che in questi quarantuno anni ha mantenuto viva la memoria di tutti i familiari. «Tutte le città dedicano un luogo pubblico ai loro concittadini rimasti uccisi. Tranne Reggio Calabria» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«L'attesa vana alla stazione e quel treno vuoto. I miei figli, Giulio quattro anni e Maurizio di due anni e mezzo, ancora aspettano ai binari il nonno con cui avrebbero voluto giocare ancora tanto. Quel giorno la nostra vita si è fermata come l'orologio della stazione di Bologna». Sono le parole con cui Vincenza Lascala, figlia di Francesco Antonio Lascala, il ferroviere di 56 anni, originario di Bianco ma fin da piccolo residente a Reggio Calabria, tra le 85 vittime della strage di Bologna, inizia il racconto dei momenti vissuti in quel drammatico 2 agosto 1980.
Il ricordo della figlia
«Avevano annunciato un ritardo del treno in arrivo da Bologna. Così attesi per due ore alla stazione di Cremona, dove all'epoca vivevo con la mia famiglia. I miei figli aspettavano il nonno. Io aspettavo mio padre. Invece di lui, il treno mi portò la peggiore delle notizie. Ricorderò sempre quei fogli di giornale che ti macchiavano le mani di inchiostro dove vidi la foto di mio padre, presa dalla carta d'identità, e lessi la notizia dello scoppio di una bombola alla stazione di Bologna. Partii subito e li mi raggiunsero mia madre Elvira e i miei fratelli, Domenico e Giuseppe, da Reggio Calabria. Non sapevo se mio padre fosse ferito oppure morto», racconta ancora Vincenza LaScala.
«Quando arrivai a Bologna, ricordo la disperazione e lo strazio. Ricordo la gente che scavava per recuperare i corpi, che soccorreva i feriti, che aiutava i superstiti e venire fuori dalle macerie. Ho visto e mai dimenticherò cose terribili. Mi accolse la polizia che, dopo avere cercato il nome di mio padre tra quelli dei feriti, non sapeva come dirmi che invece era deceduto. I corpi straziati delle vittime erano in uno stanzone con tante lenzuola bianche a terra. Fu mio fratello a riconoscere il corpo di mio padre. Mi guardavo intorno e vedevo solo devastazione e angoscia. Mi resi conto del dolore straziante di quelle famiglie del cui congiunto era stato trovato solo un brandello di stoffa. Mio padre era rimasto schiacciato da una pensilina. L'impatto lo aveva privato di una gamba e di un braccio. Però riuscirono a ricomporre il corpo. Fu in quel momento di profondo dolore che la città di Bologna entrò nel mio cuore per sempre. Quella comunità, così ferita e colpita, ci adottò tutti, subito. Abbracciò il nostro dolore e ancora oggi li sentiamo sempre accanto ogni giorno, non solo il 2 agosto. In questi quarantuno anni hanno certamente alleviato a nostra solitudine e la nostra disperazione. Non li ringrazierò mai abbastanza per averci accompagnato in questa tragedia, e negli anni che sono seguiti, per mantenere vivo il ricordo dei nostri cari e per essere con noi nel chiedere ancora Verità e Giustizia».
Vincenza Lascala aveva 27 anni quando perse suo padre. Non riuscì più a restare a Cremona e tornò a Reggio per stare con la sua famiglia.
«Era un padre che sapeva essere severo senza smettere di essere dolce. Aveva giocato tanto con noi figli e tanto giocava con i nipoti. Erano piccoli quando lo persero. Mio fratello Giuseppe, all'epoca venticinquenne, ha chiamato il più piccolo dei suoi figli, nato dopo la strage, come mio padre, Francesco Antonio. Un padre e un nonno che non sarà mai dimenticato», ha raccontato ancora la familiare.
«So che il presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, all'indomani della strage invitò i Comuni delle vittime a ricordarli con una targa, con l'intitolazione di una strada o di una piazza. Qui a Reggio tutto tace. L'associazione culturale L'Agorà, in persona del presidente Giovanni Aiello, ha presentato una proposta di intitolazione, tre anni fa, al Comune di Reggio che non ha mai risposto. Mi chiedo perché solo a Bologna, dove in questi anni si sono svolte tante manifestazioni in memoria dei nostri familiari, io debba sentire il nome di mio padre e debba percepire che il suo ricordo è collettivo. Anni fa mi ero recata direttamente al Comune di Reggio per chiedere, anche a mie spese, di inviare un Gonfalone alla cerimonia del 2 agosto a Bologna. La mia richiesta non fu mai accordata. Mi chiedo perché Reggio, dove mio padre ha vissuto fin da quando aveva 8 mesi, non voglia ricordarlo. Mi chiedo perché mio padre debba essere l'unica vittima a non essere ricordata nella sua Città. Tutte le città, anche quelle europee di provenienza dei turisti morti a Bologna quel giorno, ricordano i loro concittadini, tranne Reggio che invece lo ha dimenticato», ha concluso con amarezza Vincenza Lascala.
La strage
Il primo sabato di agosto, la stazione ferroviaria dove pulsa il cuore del Paese è gremita. Dopo la tragedia Ustica, si preferisce viaggiare in macchina o prendere il treno. È il posto giusto e anche l'orario non è casuale. Si aspetta che siano passate le 10 del mattino perché quella bomba non deve costituire solo un avvertimento ma deve generare una Strage. Di innocenti, anche bambini.
Ci sono accadimenti che non si esauriscono in pochi infernali attimi, perché il dolore che generano ha proporzioni tali da non poter essere rimarginato mai completamente. Ci sono fatti della Storia di questo Paese che ancora oggi ne inficiano l'integrità e la lealtà a quegli stessi valori di libertà, sicurezza e giustizia che proclama di garantire.
Il 2 agosto 1980 la nostra Repubblica ha tremato ed è andata in pezzi. La nostra Democrazia ha fallito, lasciando che fosse versato il sangue innocente di 85 persone in un progetto di morte deliberato; la nostra Democrazia continua a fallire ogni giorno che passa senza che sia riconosciuto ai familiari il diritto alla Giustizia e all'Italia perbene il diritto alla Verità.
I familiari di queste vittime continuano ad essere le sentinelle della Democrazia in pericolo, della Democrazia di tutti, anche di coloro che hanno pensato, e forse ancora pensano, che questa Strage non li abbia mai riguardati e non li riguardi, perché non hanno perso un loro caro quel giorno in quell'esplosione. Invece quello che è accaduto riguarda tutti, perché non è stato un incidente ma una di quelle Stragi di Stato che in uno Paese degnamente definito Democratico rappresentano una contraddizione intollerabile uno strappo profondo e lacerante.
L'orologio fermo... alle 10:25
Una violenta esplosione, alle 10:25 di quel giorno di quarantuno anni fa, uccide 85 persone, ferendone duecento. Crolla l'ala ovest dell'edificio che, davanti al binario 1 della stazione Centrale di Bologna, ospita la sala di aspetto di seconda classe, la tavola calda e altri uffici. Quella sala d'aspetto oggi accoglie un monumento con tutti i nomi delle vittime e fuori un orologio è ancora fermo a quell'orario.
Testimonianze successive all'impatto riferiscono di un fortissimo boato, di una violentissima deflagrazione e del reperimento del cratere da parte dei vigili del fuoco. Così in modo inequivocabile e allarmante, la più rassicurante per quanto drammatica ipotesi dell'esplosione di una caldaia e quindi di un incidente, cede il passo alla certezza di attentato dinamitardo.
La piazza del dolore e della solidarietà
In un attimo piazza delle Medaglie d'Oro, antistante alla stazione Centrale di Bologna, quel 2 agosto diventa e luogo di disperazione e speranza, dolore e solidarietà, strazio e consolazione.
Arriva il presidente Sandro Pertini a soffrire con i familiari e sostenere una Repubblica andata in pezzi. Accorrono vigili del fuoco, forze dell'ordine, ambulanze e tantissimi cittadini e volontari che si mettono a cercare tra le macerie, a scavare, a soccorrere, a dare una mano. Tutta Bologna capisce subito che è successo qualcosa di gravissimo, nessuno si sottrae e tutti si mettono a disposizione. Autobus divengono ambulanze, trasportano corpi all'obitorio fino a quando il cielo si fa scuro. È un'apocalisse inattesa che bisogna affrontare.
Quel giorno in realtà a soffocare sotto le macerie non sono state solo le persone presenti in stazione a Bologna ma anche amici e familiari che hanno trascorso ore di angoscia e sofferenza prima di scoprire la più atroce delle verità sui loro cari.
Nel 1980 Bologna è una città rossa, ben amministrata dall'esponente del partito Comunista Renato Zangheri, è una città ancora ferita dal disastro aereo in cui hanno perso la vita 81 persone a bordo del Dc9, in viaggio da Bologna verso Palermo e precipitato al largo di Ustica poco più di un mese prima, e dalla strage dell'Italicus, il treno in viaggio la notte tra il 3 e il 4 agosto del 1974 da Roma verso Monaco, dilaniato da un'esplosione appena uscito dalla galleria più lunga d’Europa, quella di San Benedetto Val di Sambro, alle porte del capoluogo emiliano, in cui avevano perso la vita 12 persone e 48 sono rimaste ferite.
Le indagini, le ipotesi, i processi e i depistaggi
Una verità complessa ma comunque ancora in parte negata. Nonostante le sentenze definitive che condannano gli esecutori materiali, esponenti della destra eversiva - sempre professatisi innocenti - il quadro resta evidentemente ancora incompiuto. Non si conoscono i mandanti di questa strage definita la più grave del Dopoguerra. Non si sa chi abbia deciso che quel giorno quegli innocenti dovessero morire né su quale altare la loro vita sia stata così barbaramente sacrificata. Un'indagine complicata in un contesto aggravato da depistaggi e insabbiamenti.
All'indomani di quel 2 agosto 1980, si teme, in un'Italia che presto sarebbe stata umiliata dalla sentenza di assoluzione in appello per la strage di piazza Fontana, un altro processo per Strage senza colpevoli.
Il primo processo richiede, infatti, sette anni per essere istruito. Le sentenze di condanna definitiva arrivano dopo altri otto anni, destituendo di fondamento le altre ipotesi terroristiche estere (palestinese, spagnola, franco-tedesca, libanese e libica) e quella del diversivo dalla strage di Ustica, consolidano la matrice neofascista della strage e condannano solo gli esecutori materiali, Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, giovane coppia militante nel gruppo eversivo Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) d'ispirazione neofascista, già in carcere. Pur avendo ammesso di aver commesso altri gravi delitti, Fioravanti e Mambro si sono sempre dichiarati innocenti rispetto alla Strage di Bologna, come anche l'altro complice, condannato in via definitiva anni dopo, nel 2007, a trent'anni di reclusione, Luigi Ciavardini, all'epoca minorenne e giudicato da altro tribunale, anche lui esponente dei Nar.
Nel 2011 l'associazione dei Familiari delle Vittime, che invoca una piena verità anche sui mandanti, presenta una memoria corposa al fine di chiedere la riapertura delle indagini e l'accertamento di responsabilità dei livelli superiori, ad oggi ancora sconosciuti. Le indagini sulle stragi di quegli anni lasciano emergere un disegno sovversivo criminale sottaciuto e ben protetto, in cui ai gruppi terroristici neofascisti era stata affidata la mano armata. Un arruolamento da parte di chi? Perché? Domande ancora, dopo 41 anni, senza risposta.
Nel gennaio 2020, i giudici della corte di Assise di Bologna condannano all'ergastolo in primo grado per concorso in strage anche l'ex esponente Nar, Gilberto Cavallini, considerato supporto logistico per la strage, dunque esecutore. Anche lui si professa innocente.
Il primo processo per i mandanti prende il via soltanto lo scorso anno, in concomitanza con il quarantesimo anniversario, grazie all'impegno imponente, tenace e instancabile dei Familiari delle Vittime che non si sono mai arresi, stimolando le Istituzioni a cercare la Verità e supportando la magistratura nel perseguimento della Giustizia.
Nel 2020 la Procura generale della Repubblica di Bologna emette l'avviso di conclusione delle indagini preliminari sui mandanti della strage di Bologna nei confronti di Licio Gelli, del suo braccio destro Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, ex direttore dell’ufficio Affari riservati del Ministero dell'Interno, Mario Tedeschi, storico direttore del periodico culturale di destra Il Borghese. Tale avviso non raggiunge nessuno di loro. Tutti morti e non più perseguibili.
L'unico processo che resta in piedi di questo ultimo filone, il primo che si sia occupato dei mandanti, è nei confronti di Paolo Bellini, ex “primula nera” dell'organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale , ritenuto esecutore della strage in concorso con Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, già condannati. Anche lui si dichiara innocente. Nelle scorse settimane la deposizione della sua ex moglie, che all'indomani della strage aveva fornito un alibi a Paolo Bellini, all'epoca sua marito, ha ammesso di avere dichiarato il falso e lo ha invece riconosciuto in un video amatoriale girato alla stazione di Bologna proprio nel giorno della Strage.
L'Italia del 1980
È innanzitutto il Paese ancora scosso dalla strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), un Paese fragile, terrorizzato dalle bombe sui binari alle porte di Bologna mentre viaggia l'Italicus (la notte tra il 3 e il 4 agosto 1974) e a Gioia Tauro in Calabria mentre viaggia la Freccia del Sud (22 luglio 1970); è un Paese indebolito dalla strage di Peteano (31 maggio 1972), in provincia di Gorizia, e dall'attentato in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio del 1974).
È un Paese profondamente e dolorosamente scosso dal terrorismo rosso e nero in cui ad uccidere sono tanto le brigate rosse e esponenti del nucleo armato di Prima linea, gruppo di estrema sinistra, quanto gli esponenti dell'organizzazione eversiva neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari.
È il Paese fortemente esposto alla penetrazione della P2 (Propaganda Due), sospesa dal Grande Oriente d'Italia nel 1976 per aver assunto finalità deviate rispetto a quelle statutarie e denunciata dalla Commissione parlamentare di inchiesta, presieduta della ministra Tina Anselmi, quale organizzazione criminale ed eversiva, viene sciolta con apposita legge nel 1982. È la loggia massonica guidata dall'imprenditore Licio Gelli, condannato per calunnia aggravata con finalità eversiva, dunque depistaggio, per l'inchiesta sul procurato terrore sui treni subito dopo la strage.
In Italia è già segretamente attiva l'organizzazione paramilitare Gladio, allineata alla rete internazionale Stay-behind (restare indietro), promossa dalla Central Intelligence Agency (Cia) per arginare l'influenza comunista e contrastare una possibile avanzata nell'Europa occidentale dell'Unione Sovietica e dei Paesi del Patto di Varsavia, attraverso azioni di sabotaggio, guerriglia, tensione, con la collaborazione dei servizi segreti e non solo.
L'Italia del 1980 è un Paese che si ritrova a trattare per il petrolio e per il gas e che alla Libia, invisa alla Nato, ammicca per ragioni storiche e commerciali, assumendo nei suoi confronti un ruolo estremamente ambiguo.
È l'Italia in cui gli accordi scaturiti dalla Seconda Guerra Mondiale sono ancora in piedi come lo è anche il muro di Berlino, segno di una guerra Fredda che tra Stati Uniti e Russia si combatte a colpi di intelligence, con patti tanto vincolanti quanto segreti.
Tutti si dichiarano innocenti
Un tribunale giudicherà ancora, ma non i mandanti, mentre chi è stato condannato si professa ancora innocente. Ad oggi, tuttavia, l'unica innocenza che resta pienamente incontrovertibile è solo quella delle Vittime. È quella di Angela di soli tre anni e degli altri sei bambini che invece di andare in vacanza, furono risucchiati da un vortice di morte programmato, pianificato e deliberato. È quella di Francesco Antonio che lasciato moglie, figli e nipoti e delle altre vittime, padri, madri, fratelli, sorelle, figli e figlie, coniugi, sorelle, nonni, zii, nipoti, amici che non sono più tornati a casa.