«Giovanni Aiello mi disse che fu lui a prendere l’esplosivo in Calabria per eseguire le stragi di mafia. Anche quella in cui fu ucciso Giovanni Falcone. Fu il capitano Spadaro Tracuzzi a presentarmi Giovanni Aiello». È quanto ha affermato pochi minuti fa il collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice, durante la sua deposizione al processo ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria.

Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Lo Giudice ha ripercorso tutte le tappe fondamentali della sua collaborazione, indicando nell’ex ufficiale dei carabinieri la persona che lo mise in contatto con Aiello alias “faccia di mostro”, l’appartenente alla Polizia di Stato che, secondo la ricostruzione di diverse Procure italiane, sarebbe al centro di alcuni tra i fatti più eclatanti del periodo stragista.

L’incontro con Aiello

«Siamo nel 2007 – afferma Lo Giudice – e le armi che avevamo erano pochissime per un eventuale scontro con i Condello. Mi metto in contatto con il comandante Spadaro Tracuzzi e lui mi dice che mi farà conoscere uno dei servizi. Una sera, mentre mi trovavo al tavolo con Consolato e Giuseppe Villani nel nostro esercizio commerciale di Pineta Zerbi, si presenta Spadaro Tracuzzi con questo suo amico che ci viene presentato come collega. Ci appartiamo e Spadaro Tracuzzi ci dice: “Questo è Giovanni Aiello dei servizi segreti. Lui ha la possibilità di farti avere quello che vuoi”. Passano pochi giorni, forse una settimana e Aiello torna assieme ad una donna fornendomi un numero di telefono. Mi dice che è un numero estero, di chiamare questa persona e che se la sarebbe vista lui. Noi la contattiamo, sappiamo che era un siriano che stava in Romania, ma non risponde. Io per diversi motivi non mi potevo muovere, così partì Antonio Cortese assieme al siriano e si recarono in Libano. Si mettono d’accordo per una cifra di 150mila dollari per un container pieno di armi. Come garanzia, Cortese doveva rimanere in Libano fino a che le armi fossero arrivate al porto di Gioia Tauro e io gli avessi consegnato i soldi. Allo sdoganamento delle armi, se la sarebbe vista il capitano Spadaro Tracuzzi. Le cose non andarono bene perché io non riuscii a cambiare gli euro in dollari». Di Aiello, però, Lo Giudice sente parlare sin dagli anni precedenti quando è in carcere all’Asinara, tramite Pietro Scotto, fratello di Gaetano. «Fra il 1992 e il 1005, era detenuto insieme a me e, in un momento di sconforto, mi disse che lui era innocente».

Le confidenze di Aiello

Lo Giudice allora arriva al punto cruciale: le confidenze di Aiello. «Abbiamo preso amicizia più stretta e mi parlò di tante cose. Mi raccontò dell’omicidio di un bambini in Sicilia il cui padre lavorava in un’aula bunker; mi parlò dell’omicidio di Ninni Cassarà, di quello di Nino Agostino. Mi parlò anche di una bomba messa a Trapani, dove morirono due bambini e una donna e rimase illeso il magistrato Carlo Palermo. Aiello, poi, mi parlò anche degli attentati a Roma, Milano e Firenze. Mi disse che, per quanto riguarda l’esplosivo, era andato a ritirarlo ad Annà, dalla cosca Iamonte. Fu mandato da Gaetano Scotto. Erano circa 10 quintali di esplosivo, una buona parte andò in Sicilia, la rimanenza fra Milano, Firenze e Roma. Mi parlò delle stragi, dicendomi che i mandanti erano i fratelli Graviano e Rocco Filippone. Anche per quanto riguarda le stragi di Falcone e Borsellino, mi disse che l’esplosivo era quello di Reggio Calabria e che era stato sempre lui a prenderlo, mandato da Scotto e da altre persone».

Altri appuntamenti e la bomba del 3 gennaio

Il collaboratore afferma che ci furono circa 10 o 15 incontri fra lui e Aiello fra il 2007 e il 2010. «A quegli appuntamenti c’ero io, una volta ci fu anche Luciano. Eravamo nella profumeria di Cortese. Glielo presentai e gli dissi che era amico dei dottori Mollace e Cisterna. Lui già dall’inizio voleva conoscere Luciano per via delle sue amicizie, ma non so il perché di questo interesse». Lo Giudice ricorda che Cortese chiese ad Aiello di potergli insegnare a confezionare ordigni e modificare armi. «Questo “corso” alla fine si tenne, tanto che la bomba del 3 gennaio alla Procura generale fu confezionata da Cortese tenendo conto delle istruzioni di Aiello. E così pure quella successiva». Il pentito rimarca come Aiello venisse più volte a Reggio Calabria, dove incontrava esponenti dei servizi segreti nei pressi dell’università Mediterranea.

Lo Giudice-Condello, vicini poi lontani

Il collaboratore arriva a parlare di tali questioni e della conoscenza con Spadaro Tracuzzi da più lontano. Da quando, cioè, nel 2001 Pasquale Condello “il supremo” decide di incontrarlo per chiarire un’estorsione avvenuta all’università di Reggio Calabria. «Era assieme al cugino Domenico Condello “u pacciu”. In quell’occasione mi chiese se io potevo trovare qualche abitazione dove poteva stare più tranquillo. Trovai la casa di Santo Cuzzola». Ma chi era Condello all’epoca? La risposta di Lo Giudice è netta: «Il capo dei capi. Assieme a lui c’era anche Giuseppe De Stefano, capocrimine, ma la ‘ndrangheta reggina la comandava Condello. Questi mi chiese di rappresentarlo nelle riunioni di ‘ndrangheta e nella massoneria. Voleva presentarmi soggetti legati a quel mondo come l’avvocato Marra, Pasquale Rappoccio. Lo stesso Condello era massone». Lo Giudice narra anche del momento in cui i rapporti si raffreddarono: «Mi chiesero di fare un affare nel settore della droga contattando Franco, proprietario del Lido Sogno. Le cose non andarono per il verso giusto e noi rinunciammo all’affare. Da quel momento finì anche la nostra gestione della latitanza di Condello».

I tentativi di ucciderlo o farlo catturare

Il pentito ripercorre anche tutte le situazioni che lo portarono ad incrinare definitivamente i rapporti con il Supremo. «Nel 2007 fui arrestato nell’inchiesta Bless e, leggendo le carte, mi resi conto che Condello aveva attuato nei confronti miei e della mia famiglia una tragedia, già da quando fu ucciso Fortunato Audino e ferita un’altra persona. Di quel delitto di autoaccusò il pentito Giuseppe Lombardo. Ma Condello aveva avuto il coraggio di farsi proteggere da me dopo aver fatto una tragedia come quella. Allora io decisi di prendere dei contatti per far uccidere Condello». Ma il tentativo non andò a buon fine. Un diverso epilogo ebbe, invece, la volontà di farlo arrestare. «Luciano, mio fratello, aveva molti contatti alla Dna, al Ros. Noi facevamo di fatto i confidenti. Avevamo informazioni su dove si trovasse, sebbene non fossero certe. Mio fratello mi chiese quale persone potesse aiutarci a farlo catturare. Mi venne in mente suo genero, Giovanni Barillà. Così passammo l’informazione al maresciallo del Ros Maesano. Misero le videocamere e le cimici a Barillà, arrivarono a Condello e lo arrestarono. A quel punto c’era gente che piangeva o che rideva. Ricordo che Luciano voleva andare a vedere come era stato arrestato, ma Maesano gli disse di stare calmo. Le cose andarono avanti fino a dicembre 2008-2009, quando Domenico Condello mi chiese armi perché ad Archi c’era fibrillazione e dovevano prepararsi per una eventuale guerra. Il problema è che dopo l’arresto di Condello prima e De Stefano poi, tutti volevano prendere posizioni diverse. Tutti i giovanotti iniziavano a dare i numeri».