Giuseppe Calabrò si confidò con un detenuto e gli disse che quegli attentati erano parte di una precisa strategia mafiosa. È quanto emerge dall’udienza del processo ndrangheta stragista che, questo pomeriggio, ha visto sfilare sul banco dei testimoni due ufficiali di polizia giudiziaria, chiamati dall’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Il primo è un appartenente al nucleo investigativo dei carabinieri di Ferrara, Riccardo Giardini, il quale ha riferito su una confidenza ricevuta da un detenuto e prontamente girata per competenza agli organi inquirenti.

Le confidenze a Goglino

Tutto parte da un pc sistemato nell’area pedagogica del carcere di Ferrara. È lì che Giuseppe Calabrò e Gianluca Goglino diventano amici. Passano solo pochi giorni insieme, circa una quindicina, ma tanto basta a Calabrò per chiedere aiuto al suo co-detenuto per la stesura di una missiva da indirizzare al procuratore capo della Dna, Pietro Grasso. A Goglino il compito di rivedere quella bozza, dal punto di vista grammaticale. Ma questi non è un detenuto di quelli inaffidabili. Anzi. Ha iniziato un percorso di rieducazione che lo ha portato ad ottenere la semilibertà, in carcere è rispettato da tutti, anche dagli agenti della penitenziaria. Di fatto diventa un confidente. Ecco perché, in più occasioni, diventa uomo importante anche per l’ufficiale di pg Giardini, che da lui trae notevoli informazioni, sempre puntualmente riscontrate. Goglino viene dunque ritenuto credibile. Il suo passato criminale consta di una condanna per omicidio e collegamenti con la malavita calabrese. Probabilmente le ragioni per cui Calabrò ritiene di potersi fidare. Giardini spiega, fra l’altro, che la volontà di Calabrò, di rendere note le motivazioni vere dell’attentato è da ricondurre alla richiesta di un suo trasferimento dal carcere di Ferrara, certamente molto duro, a quello di Bollate, dove invece le attività trattamentali sono molto più improntate alla rieducazioni, con un grado di custodia sicuramente attenuato rispetto alla casa circondariale emiliana.

 

Il contenuto della lettera al maresciallo

Ma tornando alla missiva da inviare al capo della Dna, Goglino, nel correggerla, si accorge di quanto sia importante. Sono fatti troppo gravi per non essere resi noti. E così decide di scrivere lui una missiva al maresciallo, in cui lo avvisa di quanto sta avvenendo. «Ti scrivo – dice Goglino rivolgendosi a Giardini – per una cosa delicata e ti premetto che quanto ti sto dicendo non ha alcun fine se non quello di rendere giustizia a delle vittime». Goglino racconta di un sogno fatto che lo ha convinto a parlare e raccontare tutto, anche se sa che metterà nei guai la persona che ha scritto la lettera. «Si tratta di una persona detenuta con me, si chiama Giuseppe Calabrò e credo che nonostante il suo comportamento lui in un altro senso sia vittima di queste persone che si crede al di sopra di ogni cosa». Il messaggi è netto: «Questo documento era indirizzato alla Procura di Reggio Calabria e tramite questa confessione lui voleva ottenere un trasferimento». E giù con tutta la verità sugli agguati ai carabinieri, non avvenuti per caso: «Nella lettere sostiene che gli omicidi avevano un fine e una linea stragi. Era stato dato ordine di colpire le forze dell’ordine per un possibile accordo fra mafia e ‘ndrangheta», C’è anche un riferimento ad una persona «che ha ordinato questi omicidi» che è «ancora libera» ed è la stessa che «garantisce protezione e lavoro alla famiglia Calabrò».

Il pc e la pen drive

La missiva di Goglino coglie nel segno. Perché ricalca perfettamente quanto riportato nel documento ritrovato sul pc del carcere di Ferrara. E qui tocca un nuovo passo indietro. La lettera che Calabrò scrisse a Pietro Grasso, ma che rimase lettera morta, fu rinvenuta sul personal computer in uso all’area pedagogica del carcere di Ferrara, a cui avevano accesso solo tre detenuti. Fra loro c’erano proprio Goglino e Calabrò. All’interno di una cartella nascosta, gli uomini della polizia penitenziaria ritrovarono il file indicato da una fonte confidenziale che riferì anche della presenza di una pen drive nella medesima area del carcere. A raccogliere quella confidenza fu il comandante della polizia penitenziaria, Paolo Teducci, anche lui oggi sul banco dei testimoni al processo. Ed è proprio lui a svelare, per la prima volta, l’identità di colui che diede l’informazione che fece ritrovare pen drive e successivamente il file con la lettera dentro il pc. Si tratta proprio di Goglino. L’ispezione disposta dalla polizia penitenziaria, dopo la soffiata, diede i frutti sperati: su uno scaffale della biblioteca fu rinvenuta la penna usb al cui interno non vi erano documenti. Mentre il controllo venne poi esteso anche al computer per controllare che non fosse stato trasferito alcun documento. Proprio durante questo controllo fu trovata la missiva scritta al computer da Calabrò e corretta da Goglino. Tutti gli utilizzatori del pc furono sospesi, ma non venne data notizia del ritrovamento del documento per non insospettire Calabrò che, pochi giorni dopo, lasciò Ferrara per raggiungere Bollate, ma in considerazione dell’istanza del suo avvocato, l’allora presidente della Commissione Giustizia, Filippo Berselli.

Il contenuto della lettera di Calabrò

Cosa c’era scritto, dunque, in questa lettera dattiloscritta? Sostanzialmente quelle verità che Calabrò ha detto solamente a singhiozzo a più riprese, per poi ritrattarle in modo più o meno completo. Ma ci sono elementi che ovviamente solo chi ha commesso quei fatti può sapere. Intanto le richieste. Calabrò ne fa tre: che la missiva rimanga confidenziale e non sia diramato il suo nome per proteggere la famiglia; il suo trasferimento alla casa circondariale di Bollate; diramare la fotografia del fratello Francesco Calabrò, scomparso (siamo nel febbraio 2012) da cinque anni. «Soffriva di depressione – scrive Calabrò – probabilmente è questo il motivo per cui si è allontanato, ma oggi ho serio timore che potrebbe trattarsi di una vendetta da parte di qualche clan». Calabrò, quindi, già all’epoca ha seri dubbi sulla fine del fratello. Un tormento che lo accompagnerà anche in seguito, non una volta sola. Calabrò in questa missiva passa in rassegna i tre episodi ai danni dei carabinieri e la conclusione è semplice: «Essi mi furono deliberatamente ordinati. Una parola mi fu detta: dobbiamo fare come fa la mafia siciliana». Per Calabrò, Spatuzza ha ragione: per gli agguati ai carabinieri e la strage di Palermo vi è «un’unica matrice mafiosa».

Consolato Minniti