VIDEO | L'ispettore in quiescenza, in servizio dal 1976 al 2013, vittima di un malore. Uno sbirro romantico della vecchia scuola, considerato uno dei maggiori conoscitori della ‘ndrangheta nella provincia di Vibo Valentia
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Un infarto, la vita che vola via. Filippo Cosco, 65 anni, ispettore di Polizia in quiescenza, è venuto a mancare ai propri cari: così riporteranno i manifesti funebri nell’annunciare la sua scomparsa. Filippo Cosco, però, era molto di più. Era un poliziotto leggendario, uno sbirro romantico, d’altri tempi, un servitore dello Stato esemplare. Ha vissuto la parte più importante della sua carriera, iniziata nel remoto 1976, alla Squadra mobile di Catanzaro, occupandosi di criminalità organizzata. Originario di Simeri Crichi, quindi della costa ionica catanzarese, è stato uno dei maggiori conoscitori della ‘ndrangheta nella provincia di Vibo Valentia. Indagò e decifrò faide. Cercò, spesso invano ma talvolta con successo, i resti delle vittime di lupara bianca seppellite nei punti più impervi delle Serre e delle Preserre. La sua firma è in calce a centinaia di note e informative, che ancora oggi rappresentano la base per la ricostruzione storica degli eventi attuali oggetto di nuovi processi. Era un poliziotto integerrimo, dall’aspetto ruvido ma dai modi gentili, che non conosceva la paura e che era capace di straordinari slanci di umanità.
Nel trattare le storie di alcuni scomparsi, studiai decine di suoi rapporti e comunicazioni di notizie di reato acquisite nelle discovery processuali, così un giorno, ritrovandomi negli uffici della Squadra mobile di Catanzaro, espressi all’allora dirigente Rodolfo Ruperti il desiderio di conoscere l’uomo del quale, nelle ultime settimane, avevo studiato il lavoro: aveva meticolosamente ricostruito la guerra di mafia, nelle Preserre vibonesi, tra i Maiolo ed i Loielo, dall’inizio degli anni ’90 fino all’annientamento dei Loielo, ad opera degli Emanuele, con l’inizio del nuovo millennio. Quel giorno l’ispettore Cosco, però, non era in ufficio. Qualche tempo dopo appresi che fosse andato in pensione. Così lo cercai, volevo solo conoscerlo e stringergli la mano. Ed una mattina, nel 2013, lo raggiunsi a Catanzaro Lido, dove mi offrì un caffè. Chiesi se fosse disponibile a rassegnarmi le sue memorie, sui fatti oggetto dei processi già conclusi con sentenza definitiva, istruiti dalla Procura di Catanzaro anche grazie alle sue indagini. Accettò e fu una bella esperienza, per entrambi credo.
Quando staccai la registrazione, si lasciò andare ai ricordi: mi raccontò, catapultandomi in un’altra dimensione, di quando assieme ai colleghi accompagnò un detenuto, che aveva manifestato la volontà di collaborare con la giustizia, tra i boschi affinché indicasse il luogo in cui era stato seppellito un uomo vittima di lupara bianca; il detenuto, improvvisamente, fuggì nella selva e i poliziotti dovettero darsi ad un rocambolesco inseguimento, in una sorta di caccia all’uomo in un territorio sconosciuto, che la preda diversamente dai suoi cacciatori, conosceva benissimo. Alla fine lo acciuffarono. «Non gli fu torto un capello, parola mia anche perché non è che ne avesse molti – disse con un tocco di ironia –. La verità è che rischiammo di finire in guai seri e avrei avuto voglia di dargliene quattro per quello che stava per combinarci. Ma dopo che lo bloccammo, lo trattammo con rispetto e restammo in silenzio finché non lo consegnammo al magistrato. Siamo poliziotti noi, noi non siamo fatti come loro». È stato un bel momento e ammirai ancora di più quell’uomo che fino ad allora era stato solo poliziotto senza volto, una firma in calce ad un’infinità di carte.
Da allora ci siamo risentiti, di tanto in tanto. Così, per un saluto, per gli auguri di Natale. Quest’anno non ci saranno. Ricevo un messaggio, da un magistrato del quale Filippo Cosco era stato prezioso collaboratore: «Purtroppo stamattina ci ha lasciati l’ispettore Cosco. So che lei lo conosceva e lo stimava». E cala il buio.