Scrive dal carcere di Reggio Calabria, dov'è detenuta con l'accusa di essere una scafista. Una lunga lettera di Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana di 28 anni, che è stata pubblicata questa mattina da Il Manifesto. Righe in cui la giovane, sbarcata in Italia il 31 dicembre scorso, racconta le sue sue attività e il suo impegno a favore delle donne e dei diritti dei rifugiati che le sono costati le minacce e le persecuzioni da parte del regime iraniano. Da qui la scelta di fuggire, insieme al fratello, prima in Turchia grazie anche a dei documenti falsi e poi in Italia.

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La traversata è costata tantissimo, racconta: «Quasi 50mila euro. La mia famiglia ha dovuto vendere la macchina e la casa per recuperare questi soldi». Il 27 dicembre la partenza dal porto di Izmir verso le coste italiane. Un viaggio difficile, che Maysoon racconta nel dettaglio: «La barca aveva tre camere piccole e un salone. Le donne e i bambini erano in una stanza e una cabina era per la famiglia (…). Gli uomini, la maggior parte dei quali erano afgani, stavano nel salone. C’erano tre bagni, uno per noi che si è rotto il primo giorno ed era fuori uso; (…) Nell’urgenza di andare in bagno dovevamo usare i sacchetti di plastica e poi buttarli fuori. A causa della situazione terribile, si vomitava spesso. Il motore della barca si rompeva continuamente (…). Si è rotta anche la pompa e l’acqua entrava in barca; i ragazzi dovevano svuotarla con i cestini che scaricavano fuori».

A bordo dell'imbarcazione si registrano anche momenti di forte tensione: «Una donna, che è stata sopra tutto il tempo, maltrattava tutti, ha cominciato a sgridarmi. Io ho reagito a parole. Piano piano tutti hanno cominciato a urlare. Un uomo ha cercato di calmarmi e mi ha chiesto di sedermi su un pezzo di legno in fondo alla barca». 

Il 31 dicembre, finalmente, si vede terra. I migranti, tra cui la stessa attivista curda insieme a suo fratello, sbarcano a Crotone. «Non c’eravamo ancora allontanati, quando ho sentito un rumore da dietro! Ho visto un’ombra dietro agli alberi! Appena ho chiamato gli altri, sono usciti i poliziotti, mi sono spaventata vedendoli, perché pensavo che ci picchiassero (come i poliziotti bulgari) e per quello ho subito detto che eravamo rifugiati: «Aiutateci!». Sono diventati tanti. Prima ci hanno chiesto di mostrare cosa portassimo nei nostri zaini e poi ci hanno perquisito».

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«Dopo ci hanno trasferiti in un parcheggio scoperto - prosegue il racconto -. Ci siamo aggregati agli altri passeggeri che erano arrivati prima di noi. Abbiamo fatto la coda per farci fotografare e per la registrazione dei nostri dati sensibili. Hanno distribuito acqua e biscotti. Mi sono seduta in un angolo con mio fratello. Il poliziotto e il mediatore mi hanno chiesto chi guidasse la barca. Ho risposto: «Non lo so». (…) Il mediatore ha ripetuto la domanda: «Chi comandava sulla barca?» (…) Ho risposto: «Non so». Sono andati via. Poco dopo, ci hanno chiesto di salire su un bus bianco. (…) Avevo i piedi gonfi e le scarpe sporche e bagnate. Le ho tolte e lavate. Poi sono andata fuori a sedermi. (…) A quel punto sono venuti ad arrestarmi. Non riesco ancora a capire il perché», si conclude la lettera.

Maysoon Majidi è stata ristretta dapprima nel carcere di Castrovillari e poi in quello di Reggio Calabria. Attualmente è sotto processo a Crotone. Del suo caso si sono occupate diverse associazioni e anche organizzazioni internazionali come Amnesty International.