Non è un caso che il 9 maggio sia la giornata in ricordo delle vittime del terrorismo interno. Questa data non è un giorno qualunque. È una di quelle caselle del calendario che ha messo insieme pezzi di storia d’Italia che, in qualche modo, hanno cambiato per sempre il volto del Paese. Il 9 maggio 1978, infatti, due fatti gravi di cronaca sconvolgono lo Stato italiano.

Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro

Sono le 12.30 circa, quando al professor Franco Tritto, collaboratore e amico di Aldo Moro, arriva una telefonata. Sono le Brigate Rosse, le quali comunicano quelle che chiamano “ultime volontà” dell’onorevole: «Adempiamo alle ultime volontà del Presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro». La voce è quella di Valerio Morucci, il quale fornisce anche un indizio: il cadavere del politico si trova in una Renault con targa “N5”. Il veicolo si trova in un luogo non casuale: è in via Caetani, ad un tiro di schioppo dalla via delle Botteghe Oscure (sede all’epoca del Pci) ed a poca distanza da piazza del Gesù (dove c’era la sede della Dc).

È una scelta ben ponderata: quello che doveva essere il protagonista del “compromesso storico” viene “riconsegnato” allo Stato italiano, seppur senza vita, a metà strada tra le due forze politiche che aveva cercato di far dialogare con sorprendenti risultati.

Il professor Tritto, sconvolto per quanto appreso, fa in modo che possano giungere in via Caetani le forze di polizia. Lì, ad attenderli, c’è la Renault 4 rossa al cui interno vi è il cadavere di Moro. Sono all’incirca le 13.15.

Cinquantacinque giorni dopo la strage di via Fani, dunque, si chiude uno dei capitoli più bui della storia italiana. E quella chiusura ha le sembianze di un cadavere finito a colpi di mitraglietta Skorpion, con ancora addosso il medesimo vestito del giorno nel quale venne rapito. Fu un vero e proprio attacco al cuore dello Stato, nelle cui fasi iniziali pare vi possa anche essere stata l’ombra della ‘Ndrangheta e di entità esterne alle Brigate Rosse. Una verità, questa, ancora tutta da scrivere.

L’assassinio di Peppino Impastato

Ma il 9 maggio del 1978 è anche il giorno nel quale venne ucciso, ad appena 30 anni, il giornalista Peppino Impastato. Nato a Cinisi, poco distante da Palermo, da una famiglia mafiosa, ben presto il giovane Giuseppe decide di rompere con quella mentalità ed anche con il padre, avviando diverse attività contro la mafia. Fonda L’idea socialista e conduce lotte a sostegno dei contadini, degli edili e dei disoccupati. È nel 1976 che decide di dar vita a Radio Aut, emittente radiofonica libera da cui inizia a denunciare tutto il malaffare mafioso dei luoghi nei quali vive. Con la sua “Onda pazza”, trasmissione di maggiore successo, Peppino si fa beffe tanto dei mafiosi quanto dei politici.

Quella sua attività antimafia, però, desta troppo clamore. Sono tanti e tali i fatti denunciati che si decide di chiudere la bocca per sempre a quel giornalista scomodo. Così, nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, viene assassinato con una carica di tritolo piazzata sotto il suo corpo, che viene adagiato sui binari della ferrovia.

Dapprima si tenterà di far passare la sua morte come un incidente, veicolando il messaggio che sarebbe stato proprio Impastato a rimanere vittima di un suo stesso attentato. Si proverà dunque a sostenere la tesi del suicidio. Tuttavia, la forza della verità alla fine verrà fuori, anche grazie alla tenacia della madre di Peppino, Filia Bartolotta, e del fratello Giovanni. La loro determinazione fa emergere la matrice mafiosa dell’omicidio. Nel 1984, anche la magistratura lo certificherà. Nonostante questo, però, nel 1992, i giudici saranno costretti ad archiviare il caso, non essendovi la possibilità di individuare i colpevoli.

Appena due anni dopo, l’attività del Centro di documentazione dedicato proprio a Impastato presenta una richiesta di riapertura del caso, indicando il collaboratore di giustizia Salvo Palazzolo quale teste chiave. Palazzolo è un ex affiliato alla famiglia mafiosa di Cinisi. Il nome che viene fuori è quello del boss Gaetano Badalamenti. Ma non è l’unico. C’è anche quello del braccio destro Vito Palazzolo. L’inchiesta viene formalmente riaperta. Nel 1997 viene emesso un ordine di cattura nei confronti di Badalamenti che si trova detenuto negli Stati Uniti. Nel 2001 il processo si conclude con la condanna all’ergastolo di Badalamenti ed a 30 anni per Vito Palazzolo. Entrambi, però, muoiono prima che possa celebrarsi il grado d’appello del processo. Seguiranno altre inchieste per far luce su eventuali depistaggi istituzionali, finite però con reati in prescrizione.

«Questo è un anno importante», ha detto Luisa Impastato, presidente di Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, il museo e centro culturale di Cinisi, dedicato al giornalista e a sua madre che ha rotto il silenzio intorno alla sua vicenda. In un video messaggio ha spiegato: «È il 45esimo anniversario della morte di Peppino, ma è anche l’anno della cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, un evento che ci chiama ad una profonda riflessione e ad un bilancio della mafia e dell’antimafia».

Leggi anche

Il filo rosso tra Moro e Impastato

Anche il 9 maggio di 45 anni fa, dunque, come capitato molte altre volte in passato, si crea un sottile filo rosso tra la Sicilia e Roma. Moro da una parte, Impastato dall’altra. Due persone assai diverse per estrazione ed idee politiche, ma accomunate entrambe da una unica voglia: il cambiamento. Ciascuno nei propri ruoli e sfruttando le competenze, hanno cercato di combattere certe incrostazioni di potere di quegli anni, finendo per essere uccisi praticamente insieme. Ma a dare ancor più valore ad una giornata come quella odierna, ci sono altri due episodi che meritano di essere ricordati.

La beatificazione del giudice Rosario Livatino

Il 9 maggio 2021, infatti, ad Agrigento, si celebra la beatificazione del giudice Rosario Angelo Livatino, martire della giustizia e della fede. Livatino viene ucciso il 21 settembre del 1990 da appartenenti alla Stidda, mentre, solo e senza scorta, si reca in tribunale.

È un giorno particolare quel 21 settembre. Il Tribunale deve decidere le misure di prevenzione da adottare nei confronti dei boss mafiosi di Palma di Montechiaro. A quattro chilometri da Agrigento, una Fiat Uno sperona la vecchia Ford Fiesta rossa sulla quale viaggia il giudice. Dal lato passeggero iniziano a partire dei colpi, mentre altri due killer a bordo di una moto affiancano l’auto del giudice e sparano. Livatino, in un primo momento, riesce miracolosamente a scampare alla furia di fuoco. Tenta di fuggire verso una vicina scarpata, ma viene raggiunto dai sicari che sparano e lo colpiscono, per poi finirlo con due colpi.

Gli assassini di Livatino vengono incastrati grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava che si trovava proprio dove avvenne l’omicidio. Sentito in commissione parlamentare antimafia, dirà: «Perché ho fatto questa scelta? È semplice: io ho avuto una famiglia che mi ha insegnato che devi avere senso di responsabilità, che quando tocca a te tocca a te, che non puoi alzarti la mattina, andarti a fare la barba e dirti le bugie. [...]».

Livatino raramente parla in pubblico nel corso della sua breve esistenza. Ma in un’occasione lo fa. È a Canicattì e afferma come, a suo giudizio, i magistrati non devono iscriversi o prendere posizione per un partito politico, pur dovendo ispirarsi ad una autonoma “coscienza politica”: «Ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difetti contestare al Giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche». Parole molto nette che sembrano ancora oggi estremamente attuali.

L’anatema di Giovanni Paolo II

E sempre il 9 maggio, ma questa volta del 1993, l’allora Papa Giovanni Paolo II è in visita ad Agrigento. L’eco delle stragi mafiose è ancora assordante. La morte dei giudici Falcone, Morvillo e Borsellino, nonché dei componenti delle rispettive scorte è nitida e fa male. L’elenco degli attentati che si susseguono nel continente si sgrana come un rosario con cadenza preoccupante. Anche il ricordo dell’omicidio Livatino è troppo concreto per essere dimenticato. Karol Wojtyla, allora, pronuncia un discorso a braccio. È nella Valle dei Templi e la sua voce tuona come mai accaduto prima: «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Si tratta di uno dei discorsi più duri mai pronunciati contro le mafie.

Accadde tutto il 9 maggio. Una data oggi istituzionalizzata, ma che racchiude in sé tanto la pesantezza di alcune sconfitte dello Stato come le morti di Moro e Impastato, quanto il germe della speranza germogliato nell’intervento di Giovanni Paolo II e nella beatificazione di un giudice, Livatino, ancora oggi troppo poco valorizzato per quel che fu il suo valore effettivo.