Il giudice Antonino Scopelliti morì in un agguato 29 anni fa alle porte di Villa San Giovanni. Era il 9 agosto del 1991. Alla sua figura di uomo delle istituzioni ma soprattutto di padre, la figlia Rosanna dedica un lungo post sui social. Ne riportiamo il contenuto.

«È una giornata strana oggi. C’è silenzio.
Piove. Per la prima volta dopo tanti anni mi sveglio con calma. L’emergenza Covid ci ha imposto di evitare le consuete iniziative legate all’anniversario della morte di papà. Mi sono mancati i ragazzi del campus che la Fondazione organizza di solito in questo periodo. Quest’anno ci sarà la messa alle 18 e un momento di raccoglimento in sua memoria vicino l’Ulivo che ho piantato per lui.

Ho più tempo per me. Ne approfitto. Guardo la mia piccolina che dorme e immagino di vederla crescere. Come sarà il suo sorriso, quali saranno i suoi sogni a 15 anni, le ambizioni a 20, chissà se indosserà qualche vestito dei miei... Penso a papà, chissà quante volte mi ha guardata mentre dormivo e si è chiesto se mi avrebbe vista crescere. Chissà se in quegli ultimi giorni, mentre scorreva le carte del “maxi processo” pensava alla promessa di accompagnarmi a scuola, al mare, a prendere un gelato. Chissà se vedendomi crescere, in quei pochi anni vissuti insieme, pensava alla normalità, alla “normalità canonica” che non abbiamo mai vissuto. E che chi lo ha ucciso mi ha rubato per sempre.

Immagino i suoi ultimi attimi e spero con tutto il cuore che non abbia avuto il tempo di accorgersi di nulla. Che il panorama dello Stretto alla sua destra abbia distolto il suo sguardo e che lo stupore della bellezza sia arrivato prima di quello della morte.

Si, mi piace immaginare così quel momento. La forza della bellezza che vince sul male. La rassegnazione sconfitta dal pensiero che si è seminato bene e che un domani il bene germoglierà sul sangue versato.

Sono trascorsi 29 anni. Anni difficili, anni di solitudine, di amarezze, di articoli ignobili. Anni in cui Antonino Scopelliti è stato un’immagine sbiadita nella Storia del nostro Paese. Uno di quei servitori dello Stato il cui ricordo vive nei 40 minuti di annuale commemorazione e poi basta: “arrivederci al prossimo anno”. Sono stati anni in cui l’impegno e la necessità di fare memoria, per noi che siamo vivi, “sopravvissuti” mi verrebbe da dire, sono diventati ragione di vita. In cui l’incessante richiesta di verità e giustizia si fonde con il desiderio di riscatto di un intero popolo che soffre la distanza dalle Istituzioni e il dubbio, per dirla con Corrado Alvaro che “vivere onestamente sia inutile”. Avere una verità giudiziaria, non è solo dare pace a chi Antonino Scopelliti lo ha vissuto ed amato, ma è dare giustizia a tutte quelle persone che credono che vivere onestamente sia non solo utile, ma necessario. Ai giovani, a chi lascia il proprio cuore in questa terra e parte col desiderio di tornare.

Per questo dopo tutti questi anni l’appello che faccio ai magistrati che stanno lavorando per scrivere la verità e la parola fine sul caso Scopelliti, è di fare presto. Il tempo sta scadendo, purtroppo. Siamo stanchi.

“Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia e se è vero che rendere giustizia e il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato”

La crisi che ha investito la magistratura facendo emergere tutte quelle contraddizioni che papà già denunciava quarant’anni fa con queste parole rischia di svilire il grande lavoro svolto con passione e umanità da quei magistrati dediti allo studio del diritto e all’amore per il tricolore e la toga. Non possiamo permettercelo.

E non sembri retorico affermare che lo dobbiamo a tutti quei servitori dello Stato, che prima e dopo papà hanno contribuito con il loro sacrificio ed il loro esempio a rendere le Istituzioni credibili e questo Paese un luogo in cui valga la pena vivere. Non è retorica: è orizzonte di senso».