Un pomeriggio al Modernissimo: Lo “spettacolo” va in scena in platea mentre quello sullo schermo sembra interessare a pochi
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Era già successo il mese scorso. Platea del Moderno di Vibo, sullo schermo un C’era una volta ad Hollywood verde rancido, con la pellicola che sembrava marinata in un filtro Instagram andato a male, buona pace della sottoscritta che si era sciroppata due ore e passa di sfumature tra l’oliva e il grigiastro, e tanti saluti al vecchio Tarantino, uno dei pochi registi ancora fedele alla celluloide, ma si sa: nelle provincie dell’Impero per godere di una visione come Cristo comanda ti deve dire parecchio bene.
Uno spettacolo movimentato
Il 12 gennaio, la catarsi. Pinocchio di Garrone. Sempre a Vibo, ma ci riprovo, hai visto mai. Mi tocca la sala piccolissima. Meglio, mi illudo. Ci sarà meno casino. Entro alle 17 meno due minuti, e la trovo vuota. Che strano, penso: pochissima gente, come mai? Fuori c’è il delirio… Saranno tutti a vedere Tolo Tolo? Inizia il film, e tutto tace: ma non per molto. Passano cinque minuti, e abbondantemente dopo la sigla iniziale, col burattino già abbozzato da Geppetto, partono le danze dell’affluenza dei pellegrini. La sala si riempirà. E per farlo, impiegherà tutto il primo tempo.
Silenzio in sala? Quando mai!
Rimpiangendo il Post Modernissimo di Perugia, che chiude le sale due minuti prima dell’inizio del film, e chi è fuori e fuori ma chi è dentro ha pagato ed ha ragione, mi rassegno a perdere le scene che seguiranno, aspettando che nell’ordine si accomodino: due coppie, una famiglia con poppante in braccio e cinquenne al seguito munita di bambola, pop corn, caramelle, coca cola, tre signore di mezza età, due signore di terza età, un gruppo di ragazzi sciolti, una coppia agée, una coppietta romantica, varie ed indistinte eventuali, tra le quali un secondo infante sotto i dodici mesi, che non vedo ma sento: per tutta la durata del film.
Il cellulare al cinema, un diritto
Accanto a me si accomoda una lady sulla sessantacinquina, che dopo aver armeggiato troppo, troppo a lungo per organizzare logisticamente visone (sic!), caramelle, sciarpa, guanti (ed eravamo già a Mangiafuoco), tira fuori un telefonino da 32 pollici ed inizia a chattare, incurante della luce a giorno che sparava sotto i miei poveri occhi. Attendendo invano che lo posasse, al terzo messaggio provo a chiederle timidamente non dico di spegnerlo - NON SIA MAI - ma di abbassare la luminosità dello schermo. Risposta secca: “perché, AL CINEMA NON POSSO USARE IL CELLLARE PER MANDARE UN MESSAGGIO? Mica sto telefonando!”. Alla mia timida replica “Veramente no, non si potrebbe”, la risposta satanica sdoganata troppo preso dagli inferi dove la legge divina dovrebbe averla confinata in secula seculorum arriva alle mie povere orecchie come un dardo lancinante: “QUESTO LO DICE LEI!”.
La calma è la virtù dei forti
Cercando disperatamente di non reagire in malo modo con uan sonora bestemmia, provo in silenzio di concentrarmi sullo schermo. Ma inutilmente. L'infante davanti a me, in prima fila, inizia a rotolarsi sul pavimento nella placida indifferenza del padre ma nella conseguente agitazione della madre, che alzatasi e sedutasi anche lei in terra, avvia un tenero scambio di effusioni, provocando la reazione della figlia grande, che ingelosita non trovava altra soluzione compensativa che sbattare violentemente su e giù la seduta della poltrona rimasta vuota. Così. Per diletto. Mentre mentalmente invoco Erode, nessun'altro sembra accorgersene, perché - siamo ben oltre i 40 minuti dall'inizio della proiezione - entra un ultimo gruppo di ritardatari: meno di 15, ma molto più di 8, almeno a giudicare il casino nel distribuirsi tra i posti rimasti vuoti negli angoli più disparati dalla sala.
Lo spettacolo nello spettacolo
Il siparietto, andato avanti per un bel po', incurante della contestuale impiccagione del burattino da parte del Gatto e la Volpe, veniva accompagnato senza soluzione di continuità dalla platea complice ed allineata al mood “CASINO!”. Rumore di mandibole impegnate con caramelle e pop corn, apertura di lattine con bibite gassate, fruscio di borse, zaini e cappotti, risate e battute varie, conversazioni a mezza bocca da cellulari accesi, che vigliacchi se ne avessero spento uno che dico uno, le uci dei display a far balenare ripetutamente la visione di questa platea vitalistica, animata, frenetica: ingestibile.
Ricchi premi e cotillon
La luce dell’intervallo, che spezzava senza alcun preavviso una narrazione già abbondantemente compromessa, portava un’ulteriore rivoluzione. La mamma e l’infante, da terra, si alzavano ed uscivano. La signora del “Questo lo dice lei”, nello scrutare la mia espressione non precisamente amichevole si alzava sdegnata dal posto accanto al mio e si spostava nelle retrovie. E le sciurette laterali, approfittato del varco, si sostituivano a lei, guadagnando il centro della platea, con dieci minuti di frenetici aggiustamenti di cappotti, sciarpe, guanti, telefoni (nonna style, questa volta), borse aperte e chiuse, caramelle, ricchi premi e cotillon.
Allo scendere del buio in sala, l’apoteosi. Le due signore agée iniziavano un fittissimo scambio di opinioni su ogni dialogo, ogni scena, ogni aspetto della trama, come se la stessa non fosse ormai incisa a fuoco nell’immaginario di tutti noi. E quindi, ogni battuta veniva ripetuta, ogni panorama commentato, ogni personaggio rimproverato o encomiato senza soluzione di continuità, ad alta voce e ancor più alto sprezzo del vicino di sedia, il tutto accompagnato da vibrante gestualità mediterranea.
Il teatro dell'arte
Faticosamente arrivavamo sfiniti alle alle battute finali: nel frattempo, nelle due file dietro si era verificato un acceso litigio che aveva impegnato almeno otto persone per quasi tutta la parentesi della Balena, causa un non meglio indentificato reo, che impediva ad una presunta bambina di sedere vicino a non si sa bene chi (un’orco?). Il gruppo di ragazzi, devo dire i meno imbarazzanti di tutti, sdoganato completamente il tabù del silenzio, avevano iniziato anche loro a fare battute come se non ci fosse stato un domani. E per recuperare il terreno perduto, al rientro in sala, la sorellina grande della poppante, scoperto il meraviglioso mondo delle corsie laterali, aveva corso su e giù per il corridoio dell’arena per tutto il lasso di tempo intercorrente tra l'arrivo al Paese dei balocchi e la metamorfosi del burattino.
Un coro greco in platea
Ora: se in prima battuta avrei pagato oro per zittire tutti, dopo due ore di passione, abbandonata l’idea di godermi il film in pace, mi rassegnavo a studiare questa “rappresentazione nella rappresentazione”, perfettamente in linea con quella raccontata da Tornatore nel Novo Cinema Paradiso, o con gli aneddoti del povero babbo sulle intemperanze della platea dei cinema tropeani di 60 anni fa. Al centro della scena, non più al film, ma il fluire ininterrotto di coscienza che mette in fibrillazione ogni calabrese che si rispetti ogni volta che si accomoda davanti ad un grande schermo. Questo coro sgarrupato, questa frenesia popolare, questa irrefrenabile voglia di farsi vedere, farsi sentire, enfatizzare o deplorare i protagonisti d’una pellicola che si fa viva, trasforma lo spettatore in una voce da coro greco improvvisato, e rende alla fine più accettabile, quasi obbligata, la resa. In fondo, che al cinema si tace, non sta scritto da nessuna parte. “Questo lo dice lei”: mi apostrofava appunto la signora. E se avesse avuto ragione?