Si dice che ogni napoletano ricordi dove fosse e cosa stesse facendo quando arrivò la notizia della sua scoparsa, il 4 giugno 1994. Ecco cosa accadde 25 anni fa
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Si dice che ogni napoletano ricordi dove fosse e cosa stesse facendo quando arrivò la notizia della morte di Massimo Troisi, il 4 giugno 1994. Io ero in redazione, in un service giornalistico napoletano che allora realizzava anche l’edizione partenopea del Tempo, in un’epoca in cui i cosiddetti “panini” erano una soluzione editoriale molto popolare.
Chi fa questo mestiere sa benissimo quanto cinismo e distacco ci sia nelle redazioni: è inevitabile quando hai a che fare tutti i giorni con storie drammatiche, morti ammazzati, ingiustizie e miserie umane di ogni tipo. È rarissimo, dunque, che una notizia sconvolga i giornalisti mentre sono al lavoro e anche la storia più cupa, triste o carica di conseguenze si tramuta subito in materiale da approfondire e organizzare al meglio per metterlo in pagina nella maniera più accattivante.
Invece, quando piombò tra le scrivanie la notizia della morte di Troisi, piangemmo tutti, chi singhiozzando apertamente come se avesse perso un fratello e chi sommessamente, con lo sguardo inchiodato sul menabò che aveva davanti, quello stesso menabò che da lì a poco avrebbe dovuto stravolgere per disegnare un giornale diverso, con nuovi ingombri di articoli e foto di Massimo. Per molti minuti, però, prima che quella notizia diventasse routine giornalistica, ci fu solo silenzio rotto dai singhiozzi e da parole di puerile incredulità.
Troisi non c’era più, e non era concepibile. Era come se il Vesuvio all’improvviso fosse sparito dalla skyline della città e il vuoto, enorme e incolmabile, fosse lì a ricordarci cosa avevamo perso.
Il talento di Troisi era intellegibile a tutte le latitudini nonostante l’uso del dialetto, ma soltanto i napoletani possono cogliere le sfumature della sua essenza, così profondamente identitaria a fronte di un messaggio che, invece, era fruibile da chiunque.
Massimo era Napoli e Napoli era Massimo. Quanto Totò, quanto Eduardo o Pino Daniele. E noi eravamo lui, con le stesse incertezze sintattiche, con le stesse parole troncate a metà, con gli stessi imbarazzi dinnanzi alla retorica di una napoletanità che rappresentava contemporaneamente il nostro maggior limite e la nostra principale risorsa.
Troisi disprezzava la ridondanza culturale di chi raccontava una Napoli tutta pizza e mandolino, ma era proprio da qui che partiva per scatenare prima una risata irrefrenabile e poi una riflessione che sedimentava sotto ogni colpo di diaframma.
In Ricomincio da tre, quando il protagonista, Gaetano, decide di trasferirsi a Firenze dalla zia, scopre che per gli altri, tutti gli altri, un napoletano non può viaggiare, può solo “emigrare”. Questa demolizione dei luoghi comuni fatta attraverso una mimica e una parlata che erano esse stesse luoghi comuni, rappresentava la forza di Troisi, che esaltava l’identità partenopea per destrutturarla meglio, per separarla dalla potenza di una lingua, il napoletano, che possiede una forza espressiva talmente soverchiante da annichilire spesso il messaggio. Il significante che si fa significato: Massimo questo non lo accettava e lo combatteva con il suo genio artistico.
Ma quando la notizia della sua morte arrivò in redazione tutte queste considerazioni restarono sullo sfondo. Ci sarebbe stato tempo per parlare della sua arte, dei suoi film, della sua poesia. L’unica cosa che riuscivamo a vedere in quel momento era il vuoto immenso che restava, lì dove un tempo si stagliava il profilo ondulato e ineluttabile del Vesuvio.