Sui social fioccano foto e post di pietanze tipiche della nostra cucina da riscoprire nei giorni di quarantena. Un posto d'onore spetta alla pasta fresca arrotolata con un ferro da lana, detta anche “strangùgghj”
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In questi giorni di permanenza forzata in casa, stando a quanto appare sui social network, una delle attività maggiormente praticate tra le mura domestiche è quella della preparazioni di piatti che fanno parte della nostra cultura culinaria che, indubbiamente, necessitano di una più lunga elaborazione rispetto al consueto ordinario. Oltre alla maggiore disponibilità di tempo a disposizione da poter dedicare ai fornelli, motivo della ricerca di tali piaceri sembrerebbe essere la voglia, il desiderio o la necessità, cosciente o incosciente, di auto appagarsi. Non per caso si dice che la tavola (assieme a qualcos’altro) sia uno dei piaceri maggiori della vita, gli altri appaiono secondari.
Tra queste portate non poteva certamente mancare uno dei piatti principi della cucina povera calabrese, strangùgghj o filèja, a secondo della zona: una pasta fresca preparata in casa che si ottiene con un semplice composto di acqua e farina di semola di grano duro. Dall’impasto ottenuto si fanno dei fini bastoncini, che poi vengono attorcigliati attorno alla “spùrgola”, un lungo bastoncello che gli conferisce una forma arricciata. Il segreto perché i stangùgghj, o filèja, vengano dello spessore giusto, né troppo grosse che ‘nchjùmbano, né troppo fini che squagghjàno, sta proprio nell’arte di arrotolarle.
La pasta, cotta in abbondante acqua salata per pochi minuti, può essere condita con sughi a proprio piacimento. Nella breve composizione in vernacolo che segue diamo alcuni suggerimenti.
Strangùgghj?
Farina e acqua, tuttu chistu è,
Ma quandu ‘i mendi ‘bucca, ohi chi bontà!
Pe’ spùrgula: ‘a gugghja di materazzi,
‘Nu ferru ‘i casetta, ‘nzocchiè
E cundùti a piaciri, ‘nzoccomè:
Cu’ ‘a carni ‘i porcu o cu’ chija ‘i crapa,
O megghju angora cu’ ‘a suriàca
Cu’ cipullètta assai e ‘na ndicchja i nduja
Cû pumadoru friscu e vasilicò.
Ng’è cu i faci puru cu’ ‘a ricotta,
‘I pecura o vaccina, com’estè!
T’allicchi i baffi,
E’ mangiari ‘i rrè!
(di Rocco Greco)