Le “calabrotte” erano ragazze calabresi destinate a matrimoni combinati, soprattutto nella zona delle Laghe piemontesi, tra le province di Cuneo e Asti.
Erano gli anni Sessanta, gli anni del boom economico. Il miracolo industriale che il nord del Paese viveva aveva fatto sì che le ragazze piemontesi per migliorare le proprie condizioni economiche ed accrescere le prospettive socio-culturali preferissero fare le operaie nelle fabbriche e vivere in città, anziché sposare i contadini e passare la loro vita nelle campagne. Con i poderi svuotati, la tradizione contadina delle Langhe rischiava di scomparire nel breve arco di una o due generazioni.
Fu così che si pensò di ricorrere alle “calabrotte”, come vennero chiamate le ragazze che andarono a maritarsi in quelle regioni. Furono scelte le giovani calabresi perché riconosciute donne semplici e grandi lavoratrici, senza altra pretesa se non quella di sposarsi ed ubbidire al marito. E le ragazze calabresi accettarono per fuggire da una condizione di miseria, con la speranza di un futuro migliore. Le “calabrotte” furono chiamate a risollevare le sorti di quelle aree agricole, ed è grazie a loro se riuscirono a mantenere le eccellenze enogastronomiche e fare delle Langhe un patrimonio unico al mondo.
A questa epopea, oggi poco conosciuta, mi sono ispirato per un breve racconto.

Dui scogghj nda casa

Nei tanti vicoletti che dalla zona alta del paese scendono e s’intersecano sino ad arrivare alla chiesa dei Morti e quindi alla Piazza, grossi scogli fuoriescono dal terreno. Vengono fuori dalle case e come radici di pini affiorano in superfice invadendo le viuzze.
Qui, in una casetta, che si alza sopra uno di questi grossi macigni, viveva la famiglia di mbari Nardu u Pasturi. Le due figlie, entrambe schette, giunte oramai al quarto di secolo, non avevano ancora trovato fortuna.
Il pensiero prevalente dei genitori, che incominciavano ad essere anziani, e, si sa, i genitori no’ cambanu sembri, era quello di vederle al più presto accasate, di formare una famiglia ed essere signore in casa propria.
Le ragazze, che avevano visto tutte le loro compagne uscire di casa con l’abito bianco, e tante altre ancor più giovani di loro, questa situazione le mortificava, le abbatteva, le faceva sentire come quegli scogli che da li non si sarebbero mai mossi! A qualcuno questa frase era pure scappata: «Ndavi scogghj nda casa, mbari Nardu!».
Vestianu Pilurussu facìa u senzali e, avendo un referente in Artìtalia, aveva già sistemato alcune situazioni non proprio facili da risolvere. Per le due sorelle sarebbe stato sicuramente molto più semplice, suggerì Marianna ‘a Giannizzara. «Du’ belli figghjòli! L’òmani ‘i ‘stu paisi no’ èpparu occhj, mu si pìgghjanu i forasteri chi ngi fannu i corna!».
I genitori furono d’accordo, non c’era altra soluzione, anzi, si era aspettato pure troppo. Il tempo che scorreva era un nemico.
Le ragazze esitavano: «Armenu m’i vidìmu prima, u ndi canuscìmu nu pocu!».
«In fotografia, per il momento!», fu la risposta di Vestianu Pilurussu.
Poi, se si fossero piaciuti e accettati da entrambi le parti, se le premesse fossero state buone, sarebbero venuti di persona e solo allora li avrebbero visti. Il tempo di cacciari i carti e via, anche per loro sarebbe arrivato il momento di uscire di casa con l’abito bianco!
E così fu!
Le due sorelle sposarono lo stesso giorno. Fecero una cerimonia unica. Il giorno dopo presero il treno che le portò ô Nordi, in Artìtalia. E qualcuno commentò: «Mbari Nardu si cacciàu dui scogghj da’ casa a ‘na vota!».