La morte del piccolo Rayan in Marocco ha riaperto una ferita che in tanti italiani non è mai guarita. Accadde 40 anni fa e tanti ragazzi non ne hanno mai sentito parlare. Questo pezzo, dunque, lo scrivo per le mie figlie e per chi ha la loro età, affinché possano sapere cosa ha significato per l’Italia ciò che avvenne a Vermicino, vicino Roma, il 10 giugno 1981.

Se cercate questo nome - Vermicino – su Google non uscirà la solita scheda riepilogativa e le coordinate satellitari per arrivarci, ma la foto di un bambino sorridente di sei anni, sulla spiaggia con una canotta a righe.
Si chiamava Alfredino Rampi e fu il nostro muro di Berlino. Anche lui venne giù cambiando tutto, frantumando l’illusione che ogni cosa fosse possibile e positiva, diventando lo spartiacque di una generazione, la mia, che all’improvviso comprese quanto reale fosse la realtà.

Non c’erano telefonini allora, né social, non esistevano reti televisive all-news né internet. C’era solo la Rai, con tre canali, di cui l’ultimo, Rai Tre, nato appena due anni prima. E già ci pareva tanto. In molte case per cambiare canale qualcuno si doveva ancora alzare dal divano e girare una manopola analogica. A mezzanotte, poi, tutti a letto. Le trasmissioni finivano in un tripudio di arpe e nuvole in bianco e nero: la sigla che chiudeva la giornata televisiva.

Ma nonostante ciò Alfredino diventò il primo tragico meme della storia italiana, il primo topic trend di un Paese che non sapeva di essere così avanti eppure così vulnerabile e impotente.
Ve lo dico subito, figlie: Alfredino Rampi è morto. È morto a sei anni in fondo a un pozzo artesiano, un budello con un’apertura di 30 centimetri di diametro in cui cadde mentre tornava a casa attraverso i prati, precipitando nel buio stretto di quel tubo per 60 metri. E lì si incastrò. E aspettò. Per tre giorni aspettò che lo salvassero, che lo salvassimo, mentre il mondo lontano 60 metri sopra la sua testa brulicava di gente, di preghiere e di disperati tentativi di tirarlo fuori.

Sul posto, dopo 18 ore dall’incidente (diciotto!), arrivò la Tv. I fari alogeni della Radiotelevisione italiana (la Rai, appunto) illuminarono il pozzo e cominciò la prima, lunghissima diretta televisiva della storia italiana dopo quella pioneristica dell’allunaggio nel 1969, quando l’Apollo 11 scese sul nostro satellite naturale sbarcando gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin.

Erano passati 12 anni da allora e tutto era diverso: sulla luna c'eravamo arrivati e ora non riuscivamo a tirare fuori un bambino da un pozzo. Restammo incollati alle immagini che giungevano da Vermicino per tre giorni. Mamme e nonne ci dicevano di pregare e lo facemmo, nonostante i miei 14 anni avessero già cominciato da tempo ad insinuare solidi dubbi sull’efficacia di quelle nenie. Ma pregare era l’unica cosa che potevamo fare mentre sullo schermo a tubo catodico passavano le sgranate immagini della tragedia. Impossibile per voi, ragazze del 2021, comprendere come apparisse quel posto attraverso la Tv. C’erano centinaia di persone, molte senza arte né parte, accalcate intorno all’ingresso microscopico di quel pozzo, un caos inimmaginabile nel quale venivano calati tubicini per portare un po’ d’aria e di latte ad Alfredino. E poi i microfoni, grandi come limoni, che scendevano per 60 metri appesi al filo per sentire la sua voce che chiedeva aiuto, piangeva, chiedeva di salvarlo.

Nell’estremo tentativo, furono calati a testa in giù anche vari speleologi piccoli di statura, ma erano comunque troppo grandi per raggiungere il bambino. Finché non si presentò sul posto Angelo Licheri, un operaio sardo di 37 anni minuscolo come un folletto, l’Angelo di Vermicino. Scese a testa in giù in quel pozzo maledetto e si scorticò vivo per arrivare fino ad Alfredino. Cercò di imbracarlo, ma per tre volte le corde scivolarono via. Allora tentò di tirarlo per le braccia, ma gli ruppe il polso e Alfredino sdrucciolò ancora più in profondità.

Fu allora che per me Dio morì. Nessuna preghiera aveva scalfito la sua alterigia, nessuna supplica aveva riscontrato la sua esistenza. Morì in quel pozzo insieme a quel bambino di 6 anni, mentre l’Italia ancora pregava e piangeva.

Alle 9 del 13 giugno, tre giorni dopo di strazio e dolore incommensurabile in diretta televisiva, venne calato nel pozzo uno stetoscopio che restituì il silenzio del cuore di Alfredino Rampi. La mamma, la signora Franca, lo chiamò invano mille volte ma neppure un sospiro risalì quel budello infernale. Nel pomeriggio, la Rai mise a disposizione una delle prime telecamere compatte che fu calata fino al punto in cui il bimbo giaceva immobile, e anche gli occhi videro quello che ormai tutti sapevamo.

Quello che accadde nei giorni successivi è, forse, ancora più tragico: per evitare la decomposizione del corpo, nel pozzo venne pompato azoto liquido per congelarlo in attesa che venisse recuperato. Ci volle un mese di lavoro per riuscirci, con una squadra di minatori che impiegò 28 giorni per scavare un cunicolo parallelo.

Quel dramma fu il nostro muro di Berlino: cadde e travolse un‘epoca, facendoci prendere coscienza che il progresso, la tecnologia e la fede di un popolo non sono ricette infallibili, come la storia, d’altronde, aveva già dimostrato innumerevoli volte. Crescemmo, ma una parte di noi restò per sempre in quel pozzo, e oggi, a 40 anni di distanza, torna a ricordarci come eravamo.
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