È la solita storia di una divaricazione, di una frustrazione senza appagamento. Se la cerchi sul vocabolario, la parola “zingaro”, finisci col chiederti come mai sia potuto accadere che il suo significato neutro – “gruppo etnico migrante” lo chiama perfino wikipedia – venga declinato fino a quel tanto di brutto, di antipatia seminata, che sappiamo. Con o senza turpiloquio, e in varie varianti da “zingaro di merda”, “zingaro ladro”, “sporco zingaro”, pensavamo di aver già conosciuto tutto su questo termine piantato per spiegare ciò che non vuole avere radici, ma germogliato con l'odio. E invece ci si accorge che la vena malata è inesauribile, che anche in Calabria – Terra che in quanto ad epiteti subiti, da terronia e prima di lì, non è forse seconda a nessuna – si confezionano ancora oggi variazioni a tema: “zingaro catanzarese”.

I cori da stadio

Nello stadio di Reggio Calabria, durante il derby di sabato con il Catanzaro, la divaricazione che non ti aspetti ha infastidito perfino lo speaker che ha mandato almeno cento volte la stessa voce registrata: “È vietato esporre striscioni che incitano all'odio razziale etc etc”, senza placare i cori insistenti e di gran lunga più assordanti nel catino di gioco.

 

Scopriamo dunque che a Reggio, ora, chiamano così malamente quelli che una volta avevano “rubato il capoluogo”: ieri era l'invidia per una politica meglio piazzata, oggi è l'astio tribale, la pancia razzista che dalla sede della Lega rutta fino allo Stretto.

 

E non è una divaricazione solo da capi ultrà, o l'offesa che si prescrive come sfottò del calcio, no. C'entra la politica in questa assurda offesa tra corregionali, l'arte non più nobile del curare una polis. Negli annali dello stupidario calabro – non più tardi dello scorso anno – si ritrova infatti un assessore di Reggio che aizzava, tramite facebook, i tifosi al grido “mandiamoli a casa ssi zingari”.

Politica e comunicazione in tilt

E c'entra anche il sempre sacro market della comunicazione se, mentre ancora il derby aveva esiti incerti, dopo l'estenuante botta e risposta tra l'altoparlante antirazziale e il coro strafottente, e quando gli amaranto avevano segnato ai giallorossi da pochi secondi, saltellava forsennato in tribuna un uomo con una quasi felpa dai colori sociali e dalla scritta antisistema, “lavati i pedi e va curcati” (lavati i piedi e vai a dormire”, per i non calabresi).

Era il festoso presidente della Reggina, Luca Gallo, giocando sull'allusione ad una sporcizia forse zingaresca degli avversari, senza pensare che le multe per i cori contro “lo zingaro” dovrebbe pagarli lui, certo non immaginando i rimproveri di cui il giorno dopo è stato destinatario per una sortita che voleva sprigionare l'entusiasmo dei tifosi – fargli capire che lui che caccia i soldi è uno di loro – e che invece è stata, fortunatamente, subissata anche sui social dalla critica di diversi suoi autorevoli compagni di fede calcistica.

Evviva lo zingaro

Un corto circuito della ragione che però, in questa Calabria a cui si può perdonare la sciocca dimenticanza delle persecuzioni naziste contro gli zingari - ma non il dilemma di una terra di accoglienza che oltraggia se stessa nel nome di una spocchia sovranista tra città, non tra curve -, a ben guardare è figlio di un impazzimento di significati che, alla fine, risarcisce lo zingaro – quello vero - se proprio non condanna il falso tifoso reggino.

 

In terra straniera stanno per viaggiare i “senza patria” della politica, i migranti dal Pd e da Forza Italia che ugualmente candideranno alla Regione Oliverio e Occhiuto con gli emblemi di un riscoperto civismo, altro termine divaricato dall'accezione del trasversalismo. E non sono zingari, in senso nobile, originario, anche quanti tentano di viaggiare dagli orgogliosi accampamenti dell'imprenditoria e dal mondo della ricerca verso i territori scoscesi della politica, Pippo Callipo e Carlo Tansi?

 

E non ricorda l'azzardo di una cartomante, la deputata Dalila Nesci che scruta quel che ci potrebbe essere “dopo il movimento” se venissero meno le regole che le impediscono di candidarsi?

 

E Sergio Abramo non rassomiglia al vecchio fabbro che, mentre nella radura occupata si accendono i fuochi, ferra gli stalloni dei gitani, li tiene a bada, scalpitanti, in attesa di un segnale – da Roma o da Milano - per riprendere la marcia?  

 

Un panorama politico affollato da “carovane” che alzano tendoni, mettono su spettacoli gradevoli a seconda dei gusti ma, comunque – con buona pace dei reggini che urlano stupidità – tutti con un unico obiettivo: arrivare a Catanzaro con la tifoseria, in questo caso, veramente più forte.