INTERVISTA | Il giornalista sportivo e scrittore Massimo Castellani spiega le dinamiche del tifo bianconero che può vantare club sparsi in tutta Italia, grazie alla capillare strategia della famiglia dell'Avvocato che negli anni dell’emigrazione meridionale fece leva sull’attaccamento alla maglia per promuovere l’integrazione degli operai a Torino e contenere le rivendicazioni sindacali. Spesso anche i giocatori venivano scelti sulla base delle loro origini. Ma oggi tante cose sono cambiate, ecco come
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È innegabile. A Firenze, nei giorni scorsi, si è compiuta una delle più bieche Caporetto ideologiche della subcultura ultras. A provocarla, le tanto esecrate quanto arcinote scritte del Franchi, “Heysel -39”e “Scirea brucia all’inferno”, in sfregio alle morti dei tifosi juventini in Belgio e del calciatore bianconero in Polonia. Le mura dello stadio viola hanno fatto da sfondo all’ultima esecuzione sommaria, in ordine di tempo, dei valori del calcio come veicolo di cultura sportiva e aggregazione.
Ora, che siano stati toscani o gli stessi bianconeri ad imbastire l’affronto sovversivo, poco importa. Rilevante, invece, che a riparare con brillante senso civico al fattaccio, intitolando uno stadio al campione bianconero, sia stato un paesino calabrese, San Roberto, in provincia di Reggio, dove il sindaco, Roberto Vizzarri, è stato il primo a lavare concretamente l’affronto a Scirea, intitolando alcuni giorni fa il campo di calcio alla memoria del campione lombardo. Ma la sensibilità juventina in salsa citra ed ultra, nasce da lontano.
Il filo bianconero che porta al Sud
La trama che unisce gli Juventus club sparsi per tutta la regione alla famiglia ed alla squadra degli Agnelli ha più di cinquant’anni. Viene ordita a Torino, tra le nebbie miste al fumo delle ciminiere, dentro e fuori i cancelli della Fiat, dove a decine di migliaia si sono immalinconite generazioni e generazioni di emigranti. A distanza di decenni, a guardare i numeri del tifo juventino da Cosenza in giù, dobbiamo ammettere che l’operazione è stata piuttosto centrata.
Nel tipico coro da stadio che accompagna i “gobbi” da Reggio a Torino, lo sfottò razzista si stempera con una verità innegabile: il calabrese è juventino. Per tre motivi. Il primo, è generazionale. L‘ultima generazione, quella dei figli dei migranti, in linea col dato nazionale, è bianconera per il bisogno di seguire la squadra che vince, specie se è anche quella del papà, del nonno, dello zio. Il secondo, è l’ansia di revanchismo. L’anziano tifa Juventus per osmosi con gli emigrati, che a Torino placavano le loro inquietudini allo stadio, unica occasione di integrazione al modello dominante, tramite il tifo per la squadra del padrone. La terza, ben più profonda, è figlia d’un progetto studiato a tavolino. Ed ha una matrice politica, come vedremo insieme ad una delle penne più felici del giornalismo sportivo italiano: Massimiliano Castellani.
Le inchieste di Castellani
Castellani, scrittore e giornalista, in forze al quotidiano l’Avvenire, dove è capo dei servizi sportivi dal 2015, è conoscitore profondo del calcio italiano. La rilevanza dell’inchiesta intorno alle morti e le malattie misteriose che funestano il mondo del calcio, confluita nel 2003 nel libro Palla avvelenata. Morti misteriose, doping e sospetti nel calcio italiano, edito da Bradipolibri, lo hanno imposto come una delle voci più attente e misurate del panorama giornalismo sportivo. È lui a fornirci chiavi di lettura per capire l’origine del legame tra Calabria e Juventus: «Al culmine dell’ondata migratoria avutasi a Torino negli anni 70, la dirigenza juventina decide di costruire una squadra sudista. Sono gli anni di Claudio Gentile, nato a Tripoli, detto “Gheddafi”; di Franco Causio, leccese, esploso nella Reggina, chiamato “il Barone”, come il suo allenatore a Reggio Armando Segato, (prima vittima della Sla); di Pietruzzo Anastasi, di Catania, cresciuto nella Massiminiana, formazione etnea, creatura calcistica del presidente Angelo Massimino, poi diventato il padre-patron del Catania; di Antonello Cuccureddu da Alghero, Beppe Furino da Palermo. Giocatori simbolo, scelti dalla dirigenza bianconera per favorire il processo di identificazione degli emigrati del meridione con la squadra. Quello che si voleva evitare, era la deriva del tifo operaio a favore del Torino e nel caso dell'acquisto di Anastasi, nel 1968 servì ad Agnelli per ammansire le proteste e gli scioperi degli operai della Fiat Mirafiori».
Un tifo che non si fosse omologato alla squadra del padrone, e che magari avesse portato derive politiche antagoniste - spiega Castellani -, sarebbe stato un grosso problema nella gestione delle masse operaie.
«Così, si fece una campagna acquisti ad hoc - prosegue -. Ed ai primi giocatori simbolo, ne seguirono altri: tra i più grandi, Massimo Mauro, catanzarese, che esplode nel Catanzaro dei miracoli di Carletto Mazzone. Mauro tra l’altro ha un primato unico, nel calcio mondiale. Ha giocato con i più grandi di sempre: Zico, nell’Udinese, Platini alla Juventus, Maradona al Napoli. È il vero simbolo del calcio calabrese, anche per il suo impegno extrasportivo. Insieme a Gianluca Vialli, e sotto l’egida dell’Associazione Italiana Malati di Sla, ha fondato l’Arisla: un ente di ricerca scientifica che ogni anno devolve milioni di euro alla ricerca».
La "colonizzazione" del tifo organizzato
«Gli anni 70 coincidono anche con la nascita del tifo organizzato, e con l’apertura di club satelliti in tutta Italia, massima concentrazione dalla Romagna in giù».
Ne deriva una rapida colonizzazione calcistica dei paesi d’origine degli emigrati, che in tutta Italia, e non solo in Calabria, finirà col portare altre conseguenze. «Le infiltrazioni criminali nelle Curve sono un fenomeno assai diffuso. Non riguarda solo i legami al vaglio degli inquirenti tra Juventus e 'ndrangheta. I legami malavitosi, purtroppo si segnalano ormai in quasi tutte le tifoserie, e le società spesso sono conniventi, per la gestione di diversi affari: dai biglietti al merchandising». In pratica, è lo spaccio che si fa distribuzione: «Come spacciano droga, così spacciano magliette, cappelli, biglietti. Il marchio della società in giro per il mondo».
La trasformazione: ultrà contro polizia
Anche questo, ha contribuito a stravolgere e radicalizzare le tifoserie. «Ormai non c’è più lo scontro tra tifoserie, ma uno scontro tra ultrà e la polizia – spiega lo scrittore -. Il nemico comune sono le forze dell’ordine. E lo dimostrano i collegamenti strettissimi tra le frange ultras delle diverse curve. Anche le bandiere, sempre più frequenti allo stadio, che inneggiano a Federico Aldrovandi, a Gabriele Sandri, emblema della lotta tra ultras e polizia, con chiaro intento provocatorio, dimostrano la mutazione avvenuta negli anni ‘80 nella geopolitica del tifo italiano».
Non più tifoserie opposte che si combattono tra loro, ma gruppi organizzati contro la polizia. Certo, gli scontri continuano ad esserci: ma in chiave diversa.
Geopolitica di un passione
Ed infatti, ad essere cambiata, è la territorialità del tifo. Che, per le grandi squadre, non è più espressione della città, dell’identità territoriale: ma solo di una fazione. «Oggi i tifosi juventini, milanisti, interisti, si danno appuntamento giungendo da ogni parte d’Italia e d’Europa - rimarca Castellani -. Non ci sono più le adunate omogenee d’un tempo, quando si partiva dalla stessa terra. Ricordo lo spareggio tra Virescit Boccaleone e la Reggina nel 1988, al Renato Curi di Perugia, il 12 giugno. Le squadre si giocavano l’accesso alla B. Da Reggio, salirono 25mila persone. Fu una delle più grandi adunate che io ricordi, con i calabresi che vinsero per 2 a 0. Certo, nel Sud che supporta le squadre casalinghe, così come nelle serie minori, parte di questa adesione territoriale ancora resiste, e fa il paio con una faziosità, una “cattiveria” abbastanza accesa. Mi riferisco alle curve del Bari e della Salernitana, molto aggressive. O al derby tra Catanzaro e Cosenza, da sempre considerato a rischio».
Diverso il discorso dei meridionali fedeli alle grandi. «Il tifo italiano all’estero è un forte elemento aggregante. Guardiamo gli autobus, i treni, le carovane di tifosi meridionali dalla Svizzera e dalla Germania che scendono per assistere a Juventus Crotone. Occasione nella quale, il tifo è sì momento di coesione, ma anche di ricongiungimento transnazionale. Mantiene, all’estero, quella funzione sociale che in patria sembra aver perduto, come dimostrano i fatti di Firenze.
La vergogna di Firenze
E tornando a Firenze, specifica: «Siano gli stessi juventini, in una sorta di strategia del terrore applicata ai disordini calcistici, o i toscani, a scrivere sui muri del Franchi, poco importa. Nel primo caso, si tratterebbe di un autogol enorme. L’insulto ad un atleta fantastico, ad un uomo meraviglioso, all'angelo bianconero per eccellenza. Di fronte a Scirea, tutti si devono togliere il cappello. Nel secondo, fossero stati i toscani, sarebbe anche peggio. Per la morte di Astori, lo scorso anno, Buffon, Chiellini e Barzagli furono tra i primi ad accorrere al funerale del capitano viola, e vennero accolti dagli applausi del popolo fiorentino. È una storiaccia, che conferma come non ci sia più la guerra anni 80’ tra tifoserie. Se riemergono certi striscioni e certe scritte, è perché qualcuno ha interesse a farli riemergere, ad alimentare questi conflitti: l’obiettivo, è scatenare la guerra con le forze dell’ordine, più che contro gli ultrà avversari».