«Chimmu ti pigghjàva u còju ‘a càscia!», sbottò furente mastro Addècu quando vide che i fichi “cruci e nuci” si erano volatilizzati e nella cassapanca era rimasto il piatto vuoto. “U dassàu u cunda u fattu!”, ribattè la sorella, madre del discolo e ‘ngordu nipote, che li aveva preparati ripieni con gherigli di noci e scorzette di mandarino, infornate e cosparse da una spolverata di “zzùccaru e cacàu”. Dovevano arrivare sino alla Vigilia di Natale, quando, a fine cena, li avrebbe messi sulla tavola, insieme ai “pittapii cu’ ‘a pàssula”, i ravioli “cu’ vinu cottu” e i “chjnulìji cu’ ‘a cicèràta”, per gustarli aspettando la Nascita del Salvatore. Macché, dei fichi non ne era rimasto neanche un picciolo e mastro Addècu ‘sta cosa non riusciva proprio a mandarla giù, no’ s’a digerìa!

 

La scenetta che vede protagonisti il nostro mastro Addècu e i gustosi e dolci frutti, ci rammenda l’importanza che i fichi hanno avuto nella nutrizione dei nostri progenitori. Considerati il pane dei poveri, particolarmente d’inverno, i fichi secchi potevano rappresentare il pasto giornaliero. Venivano essiccati al sole su appositi canestri fatti di canne intrecciate.

 

Ad essiccazione avvenuta, venivano conservate “ndo casciùni”, da cui la colorita espressione “Chimmu ti pìgghja u còju a’ càscia”, rivolta a chi, furtivamente, andava a rifornirsi di fichi: “Che il coperchio della cassapanca si possa abbassare di colpo (a mo’ di ghigliottina) e ti possa spezzare l’osso del collo.”

 

Impiegati in molte ricette tradizionali, i fichi rappresentano una delle colture più diffuse ed apprezzate della nostra tradizione. Portati in Calabria sulle navi dai Fenici, i fichi, soprattutto quelli secchi, servivano come riserva di calorie per le fatiche dei marinai. La pianta, originaria dell'Asia Minore, trovò qui clima e terreno fertile, insediandosi velocemente. D’allora la Calabria è sempre stata una dei maggiori produttori di fichi, di varietà diverse e di qualità eccelsa.

 

L'abate Gioacchino da Fiore nel XII secolo, in merito ai fichi di Calabria ebbe a scrivere: «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezione egli è il raccolto dei fichi. Principia egli nel mese di giugno e si allunga fino all'altro di dicembre, sempre l'une succedendo all'altre... nere, bianche, altre brune, altre rossiacce, tutte però così dolci, che filano dalla creduta bocca stille di miele, e come se per filarlo non bastasse una sola apertura sul capo, sovvente ancora si stracciano per i fianchi".

 

Anche ai tempi dell'antica Grecia questi frutti erano tenuti in grande considerazione, Platone ne era, infatti, ghiottissimo. Si narra che ad Atene i farmacisti del tempo portassero al collo collane di fichi secchi, perché ritenuti dotati di virtù purificatrici.
Numerose sono le leggende che vedono protagonista l’albero del fico ed i suoi frutti: dalla cesta con Romolo e Remo, affidata alle acque del Tevere andata a fermarsi sotto un fico, e poi venerato in tutto l'Impero; ai fichi di Catone giunti freschi da Cartagine e distribuiti ai senatori romani per convincerli della pericolosa vicinanza della città nemica.

 

Una di queste storie, che veniva raccontata ai bambini riuniti attorno al caminetto o alla ruota del braciere nel periodo natalizio, è la leggenda che narra come l’albero dei fichi ed i suoi frutti siano stati benedetti dalla Madonna. Si racconta che quando Maria con san Giuseppe ed il Bambinello dovettero scappare da Nazareth diretti in Egitto per sfuggire al massacro dei bambini che Erode aveva ordinato allo scopo di uccidere Gesù, la notte trovarono riparo sotto una bella pianta di fico e questa, riconoscendo la Sua Divinità, subito accrebbe le sue larghe foglie per meglio nasconderli ai soldati del re crudele e sanguinario. La mattina, scampata la minaccia, Maria benedisse l’albero che aveva nascosto e salvato il Redentore: “Sii tu benedetto, o fico! Due volte all’anno darai frutti dolci come il miele”.

 

Perciò, nel periodo di Natale, per celebrare la venuta di Gesù Bambino, i Calabresi consumavano i fichi secchi “cruci e nuci” (o crucette, a secondo dei luoghi. Il nome deriva dalla particolare lavorazione e dalla forma data, quella di una piccola croce, a memoria della Passione ad Egli riservata). E, tale tradizione, preparati anche da aziende dolciarie, è giunta integra sino ai nostri giorni, forse non tutti conoscendo la leggenda che li accompagna.