Giorgi u Sìricu era schettu. I settanta li aveva passati da un pezzo ma se li portava davvero bene, tanto che nessuno che non lo conoscesse gli avrebbe dato l’età che aveva. La sua timidezza oltre misura nei riguardi del sesso femminile lo aveva sempre bloccato e mai aveva avuto un contatto o cercato una donna. Per via di un lieve zoppicare, dovuto ad una gamba un poco più corta dell’altra, fin da ragazzo soffriva di una forma di complesso che lo aveva irrigidito a tal punto che al cospetto di una donna, che non fosse una di famiglia, non riusciva ad aprire bocca, si sentiva in soggezione.
Si raccontava che una volta accadde che una forestiera per strada gli chiese un’informazione. Lui non riuscì a proferire parola. La guardò inebetito per un tempo indefinito tanto che la poverina credette che anch’egli fosse straniero e gli ripeté la domanda in inglese. Niente! Continuava a guardarla senza fiatare, fin quando non sopraggiunse un amico che lo tolse dall’impaccio.
E dire che brutto non era, anzi! Alto, magro, vestiva sempre con decoro… tanti altri meno piacenti di lui avevano trovato e se solo lo avesse voluto anch’egli avrebbe potuto incontrare una brava ragazza e formarsi una famiglia. Ma il suo destino non era questo. D’altronde, come si dice: “Matrimoni e vescuvàti du Cielu su’ mandati!”.


Era sarto, cuciva per uomo, ma non aveva mai avuto una bottega sua. Il mestiere lo aveva imparato da mastro Micu u Custurèri, andando come discìpulu dall’età di sette otto anni, ma quando questi chiuse bottega perché oramai anziano, Giorgi u Sìricu non se l’era sentita di mettersi in proprio. Si limitava a fare qualche lavoretto a casa: accorciare un paio di pantaloni, le maniche ad una giacca, sostituire una lampo che si era rotta. Dopo la dipartita degli anziani genitori, viveva da solo nella casa di famiglia e quel poco che gli necessitava lo aveva sempre tratto dalla pensione d’invalidità. Il guadagno che gli veniva dal lavoro lui diceva che era per gli sfizi. Davvero pochi, a dire il vero.
Aveva due sorelle, più piccole, entrambe sposate, e, non avendo mai cucinato, neanche cotto un uovo, era da queste che pranzava. La sera, no, preferiva rimanere a casa sua, ed erano più le volte che non cenava di quelle che lo facesse. Ma oltre ad un po’ di pane con provola o una mela non andava. Per il pranzo invece alternava, un mese da una sorella e quello successivo dall’altra, donando loro un piccolo contributo per la spesa. Era molto attento alla dieta e al di fuori di questi pasti non metteva mai niente in bocca, neanche se fosse oro colato o “si scindìa du cielu”. Tale rigorosa abitudine alimentare ogni qualvolta se ne presentava l’occasione era sempre pronto ad elevarla ad argomento di discussione. E lo faceva assumendo un atteggiamento solenne, conferendo alla cosa un alto valore. I presenti, conoscendo la solita tiritera, a volte lo compiacevano, lusingandolo per questa sua “nobile” capacità, altre invece lo contrariavano di proposito per farlo infiammare. Era un modo per passare il tempo.

 

La sua passione più grande, senza possibilità di sbagliare, si può dire che sia stata la squadra del Catanzaro. In quegli anni in cui i Giallorossi si arrabattavano tra la massima serie e quella cadetta, spesso con gli amici andava a vedere le partite di pallone allo stadio. Ed era questo il solo sfizio che si sapeva si togliesse, altri non se ne conoscevano. Prima della gara capitava che andassero a mangiare in qualche bettola. Gli altri prendevano u morzèju, la tipica pietanza catanzarese a base di peperoncino piccante ed interiora di vitello, mentre lui chiedeva una bistecca ai ferri o, più semplicemente, un piatto di pasta col pomodoro. Dopo la partita, al rientro, qualche volta succedeva che facessero un giro più largo e si fermassero dalle parti di Lamezia dove gli amici scapoloni con i quali s’accompagnava si intrattenevano con alcune donnine compiacenti, mentre lui rimaneva ad aspettare in macchina con la sua radiolina a transistor.

 

La mitica partita che il Catanzaro, squadra cenerentola del campionato, ebbe la meglio sui Bianconeri pluricampioni della Juve la ricorderà per sempre. Di quella memorabile partita ne parlerà per tutti gli anni a venire, rammendando tutti i passaggi che portarono l’attaccante Mammì alla segnatura che valse la vittoria. Ripetendo ogni santa volta che per tutta la notte precedente la gara gli addetti allo stadio annaffiarono il rettangolo di gioco, rendendo il campo pesante, non permettendo così di fare esprimere al meglio i giocatori più tecnici della squadra blasonata. Di questa furbata, su cui, a dirla tutta, la voce era circolata veramente, ne andava fiero e riteneva che era stato giustissimo farlo, sostenendo che “Cu’ tutti i sordi chi hannu, accàttanu i megghju giocatori e vìngiunu sembi ‘i stessi! E ti pari giùstu a ttìa?”. Trascorsa quella felice epopea per le Aquile Giallorosse, con l’avanzare dell’età e la squadra precipitata nelle categorie minori, a vedere la partita non vi fu più nessuno che ve lo portasse. Ma, a differenza della stragrande maggioranza di quella moltitudine che all’epoca la domenica mattina si metteva in macchina per raggiungere lo stadio di Catanzaro, Giorgiu u Sìricu i colori Giallorossi non ha mai smesso di seguirli, mai!

 

Col passare degli anni era diventato però sempre più scontroso. “S’appicciàva come n’abbàttaru” per un nonnulla, tanto che questo suo modo di fare era divenuto proverbiale tra gli amici che frequentava al bar dove andava a “gustarsi” giocare a carte. In un qualsiasi ragionamento l’ultima parola doveva essere sempre e comunque la sua e non accettava che venisse contraddetto. Gli amici lo conoscevano e quando in una discussione lo vedevano infervorarsi più del dovuto altro non potevano fare che assecondarlo per porre fine alla questione. La “’ngiùria” che gli avevano dato sin da ragazzo era perché era chiuso dentro il suo bozzolo proprio come il baco da seta.
Giorgi u Sìricu non era amante della confusione. Non considerando le volte che era stato a Catanzaro per le partite, le altre occasioni che era stato fuori dal paese si potevano contare sulle dita di una mano, e sempre per qualche esame medico nella vicina Vibo Valentia.
Le volte che le sorelle, con le famiglie, preparavano per passare u “Gallelèu” a’ Fùngia oppure “Menzagùstu” o’ Turràzzu, lui si disassociava sempre. Preferiva la tranquillità della sua casa, soprattutto in quelle giornate di “burdellu strati strati”. Le sorelle sapevano che era inutile insistere, gli preparavano la sua porzione di pasta ò furnu con le polpette e lui, prima che loro partissero, passava e se la prendeva per poi gustarsela in tutta tranquillità a casa propria.
Era fatto così!

 

Sìricu = Baco da seta;
Schettu/a = Celibe/Nubile;
Custurèri = Sarto;
Matrimoni e vescuvàti du Cielu su’ mandati = Matrimoni e vocazioni religiose sono voluti da Dio;
Discìpulu = Discepolo;
Scindìa du cielu = Scendesse dal Cielo;
S’appicciàva come n’abbàttaru = S’infiammava come un fiammifero;
Gustarsi = Guardare;
‘Ngiùria = Soprannome;
Gallelèu = Pasquetta;
A’ Fùngia = Spiaggia oggi identificata come “Hotel Grillo”;
Menzagùstu = Ferragosto;
Turràzzu = Pineta di Torre Mezza Praia;
Burdellu strati strati = Trambusto per le strade.