Gli specchi possono fare strani scherzi. Magari ci passi accanto pensando ai fatti tuoi, ti giri distrattamente e nel riflesso non vedi la tua faccia, ma quella di tuo padre.
Ogni giorno che passa scopro di assomigliargli sempre più. Il mio passo, il modo di stropicciarmi gli occhi e arruffarmi i capelli, l’incapacità di andare a letto prima delle 2 di notte nella illusoria convinzione che il mondo, a quell’ora, sia solo tuo.
Con quattro figli maschi sempre pronti ad esigere attenzioni e complicità, era inevitabile che cercasse di ritagliarsi un po’ di spazio rifugiandosi nelle ore piccole, che dedicava alla lettura da cima a fondo di Paese Sera.
Era grande come un lenzuolo e lo leggeva sedendo al tavolo della cucina, aprendolo per intero, come un architetto che studia i suoi progetti avendo cura di non rovinarli e di non alterare la simmetria dei disegni. Perché quel rito serale si compiesse senza intoppi, era fondamentale che il giornale non venisse stropicciato. Più di una volta per ripicca si è rifiutato di leggerlo solo perché qualcuno di noi figli lo aveva “rovinato”, magari sedendosi sopra per sbaglio. Doveva essere liscio e pulito, senza neppure una piegatura accidentale.

 

È su quel giornale, che allora ancora odorava di piombo e inchiostro, con i bordi bucherellati dagli ingranaggi delle rotative, che ho imparato ad amare i fumetti. Alla fine di ogni edizione ce n’era una pagina piena zeppa, con dieci o dodici strisce che venivano pubblicate sei giorni su sette. Charlie Brown, Sturmtruppen, B.C., Blondie, Moose e molti altri. Mio padre me la conservava oppure mi concedeva di leggerli con lui prima di andare a dormire, a patto, ovviamente, che non sgualcissi il giornale. Oggi, sul comodino accanto al mio letto, ci sono pile di fumetti che vengono dalla passione nata in quelle sere, mentre lo osservavo sfogliare quel giornale gigantesco e frusciante chiedendomi cosa ci fosse scritto di tanto interessante da tenerlo occupato così a lungo.

 

E quelle sere talvolta diventavano eventi, per vedere insieme un incontro di pugilato. Se alla fine degli anni '70 eri un ragazzino che viaggiava verso i 12, come me, e avevi un padre che amavi, come me, allora conosci il pugilato. Che era qualcosa di molto, ma molto diverso dal baraccone da circo che ne ha preso il posto dopo che, nel ‘97 a Las Vegas, Mike Tyson staccò a morsi l’orecchio di Evander Holyfield. Prima di allora allora la boxe era metafora di vita, strumento di emancipazione, occasione di riscatto. Era sport. Coincideva con campioni come Sugar Ray Robinson, George Foreman, Muhammad Ali, Joe Fraizer, Nino Benvenuti.

 

Oggi quel pugilato non esiste più, e forse è meglio così. Perché nel 2000 e passa non ha legittimità uno sport che ti costringe a picchiare il tuo avversario fino a spillargli sangue. Eppure allora un senso ce l'aveva. E io lo trovavo nell'entusiasmo di mio padre, che non mai visto picchiare nessuno, ma amava quella sfida essenziale e autentica, che ti restituiva una verità immediatamente comprensibile, anche per me, che mi concentravo più sulle espressioni del suo volto che sull'incontro in tv, per capire, senza ombra di dubbio, chi meritava di andare al tappeto.

 

Non guardo più la boxe, ma ricordo perfettamente la condivisione di quei momenti con lui e gli insegnamenti che quella confortevole routine lentamente sedimentava nella mia vita.

 

Orfano ad appena 10 anni, mio padre perse entrambi i genitori e il fratello più piccolo in un bombardamento aereo alleato su Napoli. Quando le sirene d’allarme cominciarono a lacerare l’aria e tutti corsero nei rifugi, lui decise che sarebbe stato molto più divertente andare sul terrazzo del suo palazzo per vedere i traccianti della contraerea ingaggiare gli aerei venuti a sganciare le bombe. Insieme a un altro fratello, sfuggì al controllo dei genitori e si godette lo spettacolo. Una bomba cadde proprio sul rifugio dove i miei nonni, mio zio e i vicini di casa trovarono la morte. Lui si salvò e cominciò a peregrinare da un orfanotrofio all’altro.

Con un peso esistenziale così opprimente sarebbe potuto diventare un uomo burbero e rancoroso, invece divenne un padre fantastico dall’anima leggera come una piuma. Nessun problema era abbastanza gravoso da togliergli il sorriso, nessun impegno abbastanza pressante da fargli dimenticare che l’umorismo e il gioco sono importanti quanto il lavoro e le responsabilità. Non ho mai sentito il peso del suo giudizio, non ho mai avvertito, anche quando forse me lo sarei meritato, la sua riprovazione. C’era sempre, ma non incombeva mai.

Poi, da figlio sono diventato padre anch’io. E ogni tanto, anche se da anni se n’è andato per sempre, girandomi distrattamente verso lo specchio, lo sorprendo a guardarmi. E gli sorrido.