Il viadotto fu costruito alla metà dell’800 per abbattere i costi di trasporto della produzione che proveniva dalla Reali ferriere di Mongiana. Per realizzarlo furono impiegate nuove malte che solidificavano in acqua
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Il ponte sull’Angitola di epoca borbonica recentemente è balzato agli onori della cronaca per il fatto che sia stato ripulito dalle sterpaglie e dai cumoli d’immondizia che si sono ammassati dopo il suo abbandono.
La causa di tanta incuria cui è stato oggetto questo gioiello d’ingegneria sembrerebbe da addossare (?) alla realizzazione del nuovo ponte che lo fiancheggia, aperto al traffico dall’Anas nel giugno del 2004. La nuova opera, voluta per migliorare le condizioni di traffico della rete viaria della zona che, soprattutto durante i mesi estivi, è investita da forti flussi di transito per la vicinanza dello svincolo autostradale di Pizzo sulla Salerno-Reggio Calabria, ha determinato così la chiusura del vecchio ponte, praticato solo dai pastori e dalle loro mandrie di ovini che ancora lo attraversano.
La ribalta tributata dai media in tale occasione di pulitura a queste vestigia, che rimandano al Regno delle Due Sicilie e alla dinastia dei Borbone di Napoli, ha stimolato la nostra curiosità e, perciò, siamo andati a riscoprire la storia di quest’opera, andando a consultare alcuni testi, di facile reperimento, che trattano la sua vicenda.
Tra questi, quello che ci è parso maggiormente minuzioso nella sua esposizione è quello scritto da due architetti, Brunello De Stefano Manno e Gennaro Matacena. Incaricati dal Comune di Mongiana nel 1974 di restaurare la “Fabbrica d’Armi”, maturata in essi la presa di coscienza per tematiche che si discostano dalla disciplina inerente il restauro scientifico del complesso monumentale, avvertirono il desiderio di dare alle stampe: “Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana”, 1979, Storia di Napoli e della Sicilia / Società editrice.
Infatti, tale opera ingegneristica rientrava nella costruzione di una strada che collegasse Mongiana al porto di Pizzo, voluta da Re Ferdinando II per abbattere il costo eccessivo del ferro prodotto nel Regno, dovuto anche al sistema di trasporto, e di conseguenza d’essere più competitivi e contrastare così il metallo proveniente dall’estero più a buon mercato.
I due architetti, autori del citato lavoro storico scientifico letterario, nel trattare nella sua complessità il polo siderurgico delle Calabrie, tratteggiano nei dettagli il ponte progettato e realizzato dall’ingegnere G.Palmieri, così come tutta l’opera viaria in questione.
De Stefano Manno e Matacena ci dicono che “fu gettato un nuovo ponte sul fiume Angitola, più ampio di quello murattiano, […] che contribuì a migliorare la viabilità della zona tirrenica in uno dei suoi punti nodali.”
Il progetto elaborato dal Palmieri fu approvato con decreto del 1841. “L’opera fu appaltata per 58.000 ducati, con un ribasso d’asta del 21%, quindi per circa 46.000. Nel giro di cinque anni il ponte fu ultimato. La spesa complessiva, ad opera conclusa, ammontò a 52.000 ducati circa, per il maggior onere che si sostenne per le complesse opere di sottofondazione nel letto del fiume.”
Il testo, che risale giustappunto a 40 anni fa, quando il nuovo ponte non era stato ancora costruito, ci dice che, con la sua architettura ben proporzionata, il vecchio ponte preunitario è stato capace di sostenere un notevole flusso di traffico, certamente più impegnativo di quello per cui era stato progettato ed è ancora là a fare bella mostra di sé: “Nove arcate di circa 12 metri spiccano sulle pile alte dai 5 ai 10 metri. Due slarghi agli estremi raccordano molto bene la carreggiata del ponte alla viabilità.”
Per la realizzazione dell’opera si è dovuto ricorrere ad una tecnologia accurata soprattutto per lo studio di malte appropriate, capace di indurire anche nelle acque del fiume. Qui i due autori si avvalgono dello storico Quaranta B. e del suo trattato «Del ponte fatto sull’Angitola», Napoli 1853, riportando fedelmente il relativo stralcio: «Occorre perciò pensare alla composizione di uno di quei malti o bitume capaci di prendere pronta e forte consistenza in acqua, epperò dopo avere consultato le opere già eseguite da altri più accreditati costruttori, guidati anche dalla esperienza acquisita in circostanze simili, essendosi con anticipazione, quasi un anno prima, eseguiti vari tentativi ed esperimenti circa la scelta e le proporzioni delle materie componenti un buon bitume, avuto anche riguardo ai materiali che si potevano avere dal luogo, dietro il conforto de’ risultati ottenuti dalle molte esperienze, si poté stabilire, che il miglior bitume, e il più conveniente alle circostanze locali sarebbe stato quello composto: di malta formata metà calcina spenta e metà pozzolana grigia del Vesuvio, parti 8; di sabbione puro, parti 3; di frammenti granitici spezzati a martello a mo’ di brecciame, parti 9».
De Stefano Manno e Matacena ci dicono ancora: «Per aumentare la quantità delle opere realizzabili a secco, si decise di abbassare il livello delle acque ricorrendo ad artifici: furono aperti diversi canali nel letto del fiume, paralleli al suo corso, i quali permisero una diminuzione del livello di circa un metro».
E concludono dicendo: «La carreggiata […] adesso asfaltata era un tempo lastricata con bei basoli di lava del Vesuvio, posti a spina di pesce».
Il volume che abbiamo scelto di avvalerci per ripercorrere la storia di quest’opera di alta ingegneria è corredato da fotografie di Fabio Donato, tra le quali prospetto, pianta e sezione del progetto di G. Palmieri del 1842.