Al netto dell’argomento  della puntata di  Giletti sui vitalizi della Regione Calabria, una cosa è certa: Nicola Adamo ha dimostrato di avere le palle scegliendo su di un tema spinoso come quello dei cosiddetti “privilegi della casta”di scendere nell’arena di Giletti  tentando di rompere e rovesciare la cortina di ipocrisia, populismo becero e opportunismo mediatico che avvolge l’editorialismo di casa nostra quando si parla di queste cose.  Se ci sia riuscito o meno è difficile dirlo. A giudicare dai commenti sui social sembra di no. Tuttavia, sulla rete, non prevale mai il ragionamento, la logica o l’analisi bensì la  pancia e l’insulto.

 

D’altronde quando si tratta di dare addosso alla politica tradizionale, di questi tempi, purtroppo, diventano tutti eroi. Dimenticando che questa terra, nel tempo, ha votato di tutto:  dai politici che facevano l’anticamera per qualche manciata di preferenze nelle case delle cosche dei sanlucoti, a  semianalfabeti esperti della politica della “mmasciata”, a tromboni di clientele che hanno cancellato il merito, promovendo campioni di mediocrità dagli ospedali,  alla burocrazia, alle società pubbliche.

 

Se oggi ci si accorge di essere con le strade piene di buche, con ponti crollati,  coste martoriate, burocrazia corrotta, disoccupazione e povertà ai massimi livelli, forse, la cosiddetta società civile, il popolo sovrano e la cittadinanza calabrese, qualche mea culpa dovrebbe pur recitarlo. Ma i calabresi come gli italiani, è noto, hanno la memoria corta. E non parliamo poi, delle ingiustizie dello Stato verso una terra spesso dimenticata dalle istituzioni nazionali. Fatta questa premessa, è evidente che alle nostre latitudini abbiamo generato la peggior classe dirigente della Repubblica.

 

Ma torniamo al tema. E ci viene naturale chiederci: perché Nicola Adamo, navigato politico, decide di andare ad un talk come quello di “Non è l’Arena”, congegnato in modo da rendere impossibile il far prevalere un  dibattito serio e ragionato? Il format di Giletti, infatti, sopravvive crocifiggendo i cosiddetti “esponenti della casta”. Difficile per Nicola Adamo, politico navigato certo, ma dai tempi e dalla comunicazione di prima Repubblica, immaginare che gli avrebbero consentito di riuscire ad esprimere un dignitoso pensiero compiuto. Questo fatto rimarrà un arcano.

Comunque sia, oltre al coraggio, ad Adamo, va riconosciuto anche un secondo merito, il tentativo di salvare la faccia almeno ad una parte di classe dirigente calabrese. Lui lo ha fatto con dignità,  mentre sugli schermi apparivano le immagini dei suoi colleghi, i quali  preferivano farsi braccare per strada,  al citofono di casa e scappare come conigli di fronte al microfono del solito cronista che metteva in atto il consueto cliché, congegnato per  spettacolarizzare la cialtroneria e la vigliaccheria  dei politici che per anni sono stati la classe dirigente calabrese e che,  oggi, sfuggono alle domande  minacciando di chiamare i Carabinieri. Di fronte a quel penoso spettacolo, bisogna riconoscere che almeno Nicola Adamo ci ha messo la faccia, tentando  di prendere di petto gli argomenti e di indicare qualche soluzione.  Adamo, inoltre, tenta  di riscattare un partito, il PD, che oggi è una confederazione di gruppi e sottogruppi gli uni contro gli altri, senza più una bussola politica. Un partito che spesso prova ad utilizzare argomenti di  antipolitica pur di ritrovare quella credibilità  persa nel corso degli anni per le controverse posizioni politiche che ha assunto. Vizio antico della sinistra dell’ultimo trentennio. Malcostume dalle radici profonde dunque,  basato sulla mancanza di tenuta di concetti e principi, in balia  del vento che soffia al momento. Un difetto che ha portato un partito che si è affannato a definirsi riformista in ogni occasione ma poi sempre pronto ad assecondare di volta in volta i venti del populismo pur di ricavarne qualche giovamento elettorale. E ritrovandosi spesso una volta ad inseguire il giustizialismo dei primi anni 90, un’altra volta il neo federalismo di bossiana memoria, un’altra ancora  la rottamazione in salsa fiorentina, e ancora, i falsi miti della società civile,  fino ad approdare sulle rive della “lotta ai privilegi” magari scimmiottando  il grillismo, come per esempio, sulla questione dei vitalizi. Nicola Adamo, dunque, ha cercato di correggere il tiro, andando da Giletti. Il posto sbagliato. E molto probabilmente ha perso la sfida mediatica. La sua dignità e la sua coerenza, invece, ritengo  ne abbiano guadagnato in credibilità e autorevolezza.

La classe politica del PD e, più in generale della Calabria, deve darsi, comunque,  una seria regolata. E deve  trovare il coraggio di correggere il tiro,  rispetto ad alcuni argomenti. La sobrietà,  la misura, il buon senso anche rispetto a temi definiti antipolitici come quello dei vitalizi dovrebbero essere presi in seria considerazione facendo prevalere il realismo e la verità.  Diciamocelo chiaramente, l’aumento ISTAT al rialzo dei vitalizi, è stata una clamorosa cazzata. Uno scivolone che ha prestato il fianco alla peggiore antipolitica. Altrettanto demenziali le giustificazioni giunte dal Palazzo a babbo morto. La politica deve riuscire a trovare   una soluzione mediana. E inoltre, deve smetterla di accusare di qualunquismo e populismo coloro che, questi temi sollevano in maniera culturalmente onesta. Un’accusa che spesso diventa un modo per etichettare ideologicamente alcuni di questi temi. A tal proposito,  Luciano De Crescenzo, in così “Così parlò Bellavista” sottolineava come  “Le regole della discussione politica presuppongono l’etichettatura: il tuo discorso non mi piace e allora io ti chiamo qualunquista, come quel siciliano che ogni volta che litigava con il suo amico ed aveva torto troncava la discussione dicendo: “Sì, ma tu tieni le corna”. È il desiderio di porre l’avversario in stato d’inferiorità: essere qualunquista è come essere cornuto”.

 

Ecco parlare di questi temi, porre la questione di trovare il giusto equilibrio tra i cosiddetti “privilegi della casta” e il comune sentire dei cittadini in determinato momento storico non significa essere dei “cornuti”. 

 

Pasquale Motta