Se avessi voglia, vi direi tutto. Per filo e per segno. Vi direi il titolo della canzone, l'anno preciso, la casa di mia nonna con il divano buono, come quello di Fantozzi. Solo che non faceva ridere. Il divano buono era una cosa terribilmente seria, e guai a saltarci su. Vi direi di quell'aria umida che saturava i pomeriggi di periferia, con la campagna che ancora incombeva dietro la grande casa e alitava sui vetri dei bus verdi che ti riportavano in città sferragliando. Vi direi tutto, magari in un libro, ma costa troppa disciplina e tedio. E io mi annoio in fretta. Ma qualcosa ve la dico lo stesso.

 

Trappole mortali e preghiere

Prendi l'Eternit. Allora l'amianto non era amianto, ma solo il tetto del garage, dove giocare ad arrampicarsi per lanciarsi poi sull'albero di limoni a fianco che aveva aculei lunghi cinque centimetri. Una vera roulette russa dove a ogni salto rischiavi di rimetterci un occhio. E sotto quel tetto di fibre cancerogene c'era lei: la Fiat 500. Non sarà stata pericolosa a lungo termine come l'amianto del tetto, ma nel suo piccolo, nel brevissimo periodo, se la cavava alla grande.
A quei tempi la security non era granché. Madri, nonne e zie si affidavano ad un servizio di babysitteraggio discreto ma di grande reputazione: Nostro Signore, la Madonna e Tutti i Santi Santissimi. Che vegliavano su di noi in cambio di interminabili rosari, a cui nel mese mariano, maggio, ci costringevano con la minaccia che la madonnina si offendeva, e piangeva. Povera donna.
In cambio di tanta devozione vigilava su di noi mentre mettevamo in moto la 500 tirando la levetta dell'accensione di quella scatoletta tremolante col motore incastonato nel culo. Di solito la sortita nel garage avveniva nei sonnacchiosi pomeriggi d’estate, in quella controra ardente come una fornace alla quale solo noi potevamo resistere, mentre i grandi riposavano su lenzuola di lino ruvide come carta vetrata.
Fratelli e cugini gironzolavano senza alcun timore intorno alla piccola auto, che improvvisamente cominciava a sussultare. Ne potevi fare fuori un paio in un colpo solo. Bastava sbagliare a premere la frizione, a ingranare la marcia. Ma le sacre babysitter hanno sempre funzionato. Forse non per tutti, ma per noi Sì.
Ci proteggevano anche quando sparivi insieme alla tua banda per un giorno intero, con la promessa di rincasare al tramonto. Al tramonto... Pensa come suonerebbe oggi dire a un bambino: "Ok, vai pure con i tuoi amici, ma ad ora di cena ti voglio a casa. Intesi?". La libertà era scandita dall’orologio cosmico. Il tramonto come limite invalicabile dell’indipendenza.

 

Canzoni come tatuaggi dell'anima

La canzone è Azzurro, l'anno preciso il 1973. Avevo sei anni. Il 45 giri di Celentano era uscito molto prima, ma il mio mangiadischi arancione era di bocca buona e non guardava alla data di scadenza di quelle ciambelle di vinile che spesso finivano la loro vita come micidiali frisbee.
Una canzone era per sempre, bastava che ti marchiasse con una frase, una parola. Come un tatuaggio dell'anima. Nel mio caso, il segno indelebile è stato quel "cerco un po' d'Africa in giardino". La cercavamo e la trovavamo la nostra Africa. Ogni volta.
Mandarini e arance erano frutti esotici da conquistare scalando alberi infestati da lunghe teorie di formiche nere. Gatti e cani erano belve assolutamente inconsapevoli della loro ferocia, che cercavano invano di tenersi alla larga da noi, ma non sempre ci riuscivano e nella migliore delle ipotesi si ritrovavano bardati con guinzagli di corda affinché ci seguissero contro la loro volontà.
La cantina con i meloni verdi appesi sulle pareti umide e piene di muffa era una grotta da esplorare col cuore in gola, alla ricerca di vecchissime cose da utilizzare nei nostri giochi, durante i quali eravamo perennemente sporchi e sudati, con i capelli appiccicati al cranio e la faccia rossa. Perché giocare era una cosa fottutamente impegnativa. E avevamo sete. Avevamo sempre sete. Che placavamo bevendo direttamente dalla pompa, senza chiederci da dove sgorgasse l’acqua e chi avesse vigilato sulla sua salubrità. Ne ingurgitavamo ad ettolitri, finendo quasi sempre per farcela uscire dalle narici, perché anche quello era un gioco.

 

Bici e bottiglie di vetro

Con la tua bici potevi andare in capo al mondo e tornare prima di sera. Gli amici non mandavano messaggi ma ti passavano a chiamare, urlando il tuo nome sotto le finestre finché qualcuno non rispondeva o li mandava a fanculo.
Le bottiglie di vetro si riciclavano davvero, tutte intere. Non le infilavi nell’anonimo buco nero di una campana per il riciclo, ma le portavi al tizio che te le aveva vendute piene e in cambio ti dava spiccioli sonanti che finivano subito in gelati e in gazzose.
Alla prima comunione ti regalavano una macchina fotografica, ma per vedere il risultato sovraesposto e sfocato dei tuoi scatti, centellinati come oboli, dovevi aspettare che finisse il rullino e poi attendere almeno una settimana per lo sviluppo.

 

Due mondi alieni

Erano altri tempi? Certo. Ma non è un fatto di età, di anni. La distanza maggiore non è temporale, è spaziale. Chi come me è nato alla fine degli anni '60, è come se fosse saltato fuori a metà del viaggio tra due pianeti diversi. Mondi alieni l'uno all'altro. Non mi interessa dire quale sia il migliore. Odio questi paragoni e disprezzo chi decanta pregiudizialmente i tempi andati, almeno quanto biasimo chi vede solo quello che entra nello schermo da 5 pollici del proprio cellulare. Ma le differenze sono cronaca non opinioni, e oggi mi colpisce notare che i bambini quando giocano non sudano più.


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