Parla uno dei cantautori calabresi più amati (e conosciuti), cittadino del mondo con radici ben salde nel suo Sud. E con una patata in tasca ai concerti: «Per stare al mondo devi sporcarti le mani»
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Nella borsina di pezza, con il disco e i testi, ai concerti porta anche una patata. «Nasce sotto, sta nascosta, per tirarla fuori ti devi sporcare le mani. Se vuoi stare al mondo te le devi sporcare anche tu». Un anno solo e ottanta concerti, quasi trenta in giro per il mondo. Un album di ritorno e altre date da Berlino all’America. Nel 2023 il secondo posto al Premio Tenco e il primo nel riconoscimento dedicato a Nilla Pizzi dal comune di Sant’Agata Bolognese.
Peppe Voltarelli, musicista in cammino, mentre parliamo fa due passi sotto il sole della Calabria, nella sua Mirto. «Si vedeva il fiume da qui quindici anni fa, ora è nascosto dalle case, disabitate. Ma il progresso come lo fermi? Mica si può», ma non parliamo più di cantieri che oscurano i torrenti. «Dicono che basterà inserire un comando in un'intelligenza artificiale per realizzare la hit perfetta: un po’ di arpeggio, due riff, la voce di questo, il coro di quegli altri. Ma è già così, c’è poco da tremare. Noi del “gruppo della patata” lo sappiamo bene, non temiamo niente. Il 70% della programmazione delle radio è fatta da pezzi creati a tavolino da team di autori che ne fanno in serie, sai che novità».
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Per quell’altra musica, quella d’artigianato, non c’è Ai che possa competere. «Ho la fortuna di godere della libertà, di viaggiare e fare musica. Raccolgo esperienze, le porto con me, diventano parole musica che riprendono a viaggiare sotto altra forma» una sorta di reincarnazione culturale che si contamina di continuo. Il 26 maggio ha debuttato “La grande corsa verso Lupionòpolis”, il nuovo album di inediti pubblicato dall’etichetta discografica Visage Music, il primo dopo otto anni dalla pubblicazione di “Voltarelli canta Profazio” e due anni dopo “Planetario”, entrambi premiati con la Targa Tenco come miglior album interprete nel 2016 e nel 2021. A luglio è scomparso a 88 anni Profazio, definito l'antesignano del folk revival in Italia «ed è stato un dolore per me. Lui era il simbolo della libertà, era un anarchico vero. Lui era il mio Woody Guthrie e io il suo Bob Dylan».
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Il 2023 s'è portato via altri amici e compagni di viaggio. «Sergio Staino mi ha trattato come un figlio quando sono arrivato a Firenze, non lo dimenticherò mai. Se n’è andato anche Giordano Bruno, attore in “Doichlanda”. Rinato pizzaiolo in Germania, aveva l’ossessione del ritorno, ma quando ha rivisto la sua Mirto dopo venticinque anni, l’ha ritrovata com’era. Quando non riesci a fare pace con il tuo luogo natio, è devastante, ti resta dentro un sospeso che non riesci a colmare. Quando vengono a mancare dei punti di riferimento, come sono stati per me Otello, Sergio e Giordano, ti senti con le spalle scoperte e sei costretto a diventare grande. Dirlo a 53 anni fa sorridere, lo so, ma è vero».
I suoi dischi, bello chiamarli così anche ora che la musica non è più materia, non ha supporti fisici ma viaggia nella Rete, hanno vita lunga e cangiante. Assomigliano a un’Onda, per citare quel singolo famosissimo che cantava di un cielo che non rideva mai, che si alimenta con l'esperienza e diventa sempre più alta. «Ho la fortuna di avere una comunità che mi segue. Di recente sono stato nella Repubblica Ceca, lì non c’è una grande presenza di calabresi, eppure sono venuti in duecento ad ascoltarmi. Una delle mie canzoni è stata anche tradotta in ceco ed è entrata in classifica».
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Sono trascorsi 30 anni dal suo primo disco, una vita. «Non è tanto semplice mantenere fresca la tua idea di creatività, di musica. Usando il dialetto ho fatto una scelta artistica precisa, magari rischiosa, ma è mia. Con il tempo ho capito che si può anche dire di “no” senza sentire le gambe tremare. Voglio sentirmi libero di decidere cosa fa per me». Con “Voltarelli canta Profazio” ha fatto pace con le sue radici, con “Planetario”, ha accolto la lezione dei grandi maestri. «Da giovane ero ammaliato dal rock e dal pop, poi ho cambiato traiettoria, ho trovato la mia. Posso dire che ho scelto il mio pubblico, che ci scegliamo ogni volta e mi va bene così. Non mi spaventa il futuro, quello che mi fa paura è la mancanza di talento, la mediocrità, è vedere ragazzi che sui social mangiano calzini per 250 euro».
Giorni di fine anno questi, con i mesi trascorsi di cui restano briciole in fondo alla sacca. Tempo di propositi, di progetti, sogni anche. «In Calabria c’è un tasso di disoccupazione del 70%, non è una cifra da Paese evoluto. La gente che non lavora, non è libera. La gente che non lavora, urla e mangia i calzini per pochi spicci. Il mio desiderio per l'anno che verrà è che quel numero si faccia più piccolo, anche di poco. Per il resto sono grato per questa chitarra, che con gli anni è diventata più pesante perché l'ho riempita tanto».