Ad andarsene saranno soprattutto i giovani, con un conseguente aumento dell'età media che renderà il Mezzogiorno ancora più "vecchio". È l'allarme lanciato da Svimez che nel suo ultimo rapporto fa il punto anche sulle dinamiche relative ai residenti
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Qual è la principale emergenza economico-sociale del Mezzogiorno che dovrebbe concentrare l’attenzione massima di politica e istituzioni? Non c’è alcun dubbio: il crollo demografico. L’ultimo Rapporto Svimez, datato 2023, non lascia adito a dubbi e pretenderebbe l’avvio di un ragionamento molto alto e articolato: tra il 2001 e il 2022, cioè negli ultimi venti anni, il Sud ha perso 1milione e 348mila residenti di nazionalità italiana, acquisendone 651mila di stranieri. Il saldo negativo di popolazione è preoccupante (meno 698mila), al contrario di un aumento di 2,55 milioni per il Centro-Nord del Paese sostenuto dall’arrivo di oltre tre milioni di stranieri, in gran parte giovani, che hanno rappresentato un argine sia per l’invecchiamento generale, sia per il crollo delle nascite. Al 1° gennaio del 2023 risultavano poco più di 5 milioni di stranieri residenti in Italia, dei quali solo il 16% nelle regioni meridionali. Ed ora si presti un attimo di attenzione in più. Valutando i flussi migratori, dal 2002 al 2021 - citiamo testualmente dalle sintesi ufficiali del Rapporto Svimez - hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Sud ha perso 1,1 milioni di residenti. Le migrazioni verso il Centro-Nord hanno interessato in misura crescente le giovani generazioni: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808mila under 35, di cui 263mila laureati.
Le domande che occorre porsi sono tanto semplici quanto drammatiche. Può il Sud consentirsi un esodo di 808mila giovani al di sotto dei 35 anni di età, e di cui oltre 260mila sono laureati? Siamo di fronte a un impoverimento devastante del tessuto economico-sociale che può e deve essere letto sotto diversi profili. Evidentemente le regioni dell'ex Regno di Napoli non sono attrattive né per l’idea di esistenza che hanno molti dei suoi giovani, né per le aspettative di lavoro di tanti dei suoi cittadini più qualificati. Eppure diversi fattori della realtà meridionale indurrebbero a ipotizzare di realizzare in loco il proprio progetto di vita: clima migliore, aria più pulita, cibo buono, centinaia di chilometri di coste, ridenti località montane e collinari, ritmi più “slow”. Quali, quindi, le ragioni più profonde dell’esodo? Quasi sicuramente la disponibilità di lavoro qualificante e di livelli retributivi adeguati è in testa tra le motivazioni che stanno alla base del moto migratorio. Lavoro inteso non solo in termini di prime opportunità, ma anche di prospettive di carriera in tempi ragionevoli, di soddifascimento pieno delle legittime aspettative generate dal livello acquisito di formazione e competenze, di mercato più flessibile e robusto per cui i cambiamenti personali o collettivi non sono traumatici, ma addirittura si rivelano come opportunità di crescita. C’è poi da pensare alla qualità dei servizi offerti dal Centro-Nord rispetto al Meridione, con in testa la sanità e i trasporti, e non solo.
Se si guarda alle sole aree interne, la situazione diventa ancora più preoccupante. Tra il 2011 e il 2023, le aree interne italiane - ha rilevato Svimez - hanno perso 753 mila abitanti: un processo di progressivo spopolamento che ha riguardato soprattutto il Mezzogiorno con un crollo di 525mila abitanti nelle proprie aree interne (-6,8%), a fronte della riduzione di 228mila nel Centro-Nord (-3,6%).
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Ed ora c’è davvero da restare attoniti: Svimez stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Sud entro il 2080 (cioè da qui a 50 anni), pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale, altrettanto impressionante, valutato in 13 milioni. La popolazione del Mezzogiorno, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080: 11,79 milioni contro i 19,93 del 2022. Questo tracollo rapportato ai circa 1,85 milioni di abitanti attuali della Calabria significherà, prevede Svimez elaborando dati Istat, uno scenario demograficamente apocalittico con una discesa fino a quota 1,05 milioni di residenti. Secondo questo autorevole studio sparirà, in buona sostanza, quasi metà dell’attuale popolazione calabrese, con un decremento netto di 804mila residenti. Se poi aggiungiamo, tornando al Rapporto Svimez, che il Sud tra il 2020 e il 2080 perderà il 51% della popolazione più giovane, compresa tra 0 e 14 anni, e che i residenti in età da lavoro si ridurranno di oltre la metà (riduzione di 6,6 milioni), non ci sono altri aggettivi per descrivere una situazione che disorienta e allarma. Entro il 2080 l'antica Magna Grecia (ci si consenta la nostalgica denominazione storica che non ha ovviamente precisione geografica) diventerà l’area territoriale più vecchia del Paese, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai comunque non esaltanti 50,2 del Nord e 50,8 del Centro.
Come impatterà tutto questo sui servizi sanitari, sul sistema pensionistico, sul livello dei consumi e sulla sostenibilità economico-sociale dei Meridionali? Ve l’immaginate una Calabria con metà della popolazione attuale, molto probabilmente concentrata solo nelle aree metropolitane e decine e decine di comuni interni letteralmente desertificati?
La politica è chiamata a ragionare su questi numeri, ad avere visione, a elaborare progetti e idee risolutivi e in grado di arginare un processo ineludibile di declino demografico e, di conseguenza, economico-sociale. Ci riuscirà? L’attuale livello del confronto non depone bene e fa temere un’incapacità oggettiva, o comunque non ottimale, di programmare il futuro. Certo la congiuntura negativa è di livello internazionale e nazionale, ma proprio per questa ragione occorrerà utilizzare le energie migliori per ribaltare la situazione. Non vogliamo essere pessimisti ad ogni costo, e siamo sempre pronti, come facciamo quotidianamente, a sottolineare le azioni positive che si riescono ad avviare. Bisogna, però, fare molto di più, mettendo da parte polemiche sterili e atteggiamenti demagogici, e per restituire alla politica il ruolo primario che le compete.