Durante il periodo pasquale, in tutta la Calabria si prepara un dolce tipico di grande valore simbolico, realizzato con ingredienti genuini la cui ricetta antichissima appartiene alla tradizione contadina: la cuddura, conosciuta anche come cuzzupa o collura o con altre varianti nel nome in base all’area di appartenenza linguistica, tutte comunque derivanti dal greco kollura, che significa “corona” e che ne indica la forma circolare.

Poiché in Quaresima si manteneva il divieto di consumare i cibi di origine animale, con l’arrivo della Pasqua l’uovo è stato scelto come alimento che arriva dopo il digiuno, e come simbolo di vita eterna, abbondanza e prosperità viene inserito sopra l’impasto della cuddura. Le forme sono davvero tante: intrecciate, cestini, colombe, campane o, per i più piccoli, a forma di bambola e di cavalluccio.

Nei giorni della Settimana Santa, le donne preparano le cuddure a ogni membro della famiglia: per tradizione, la più grande viene donata alla persona più anziana e il numero delle uova era in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Ma in alcuni luoghi della regione, soprattutto in quelli dell’entroterra, c’è la tradizione di non mettere le uova sulla ciambella e di inserire dei ripieni all’interno dell’impasto. È il caso della “cullura cu le passule”, il dolce tipico pasquale di Campana nel Cosentino che viene riempito con noci e uva passa.

Gli ingredienti della cullura

La cullura di Campana è composta dal 50% di semola di grano duro, il 30% di farina di grano tenero e il 20% di lievito madre. A questa farina si aggiunge l’olio d’oliva, l’acqua e il sale. Tutto viene amalgamato per circa 15-20 minuti dopodiché si lascia lievitare nell’impastatrice. Terminata la necessaria lievitazione, si iniziano a fare dei panetti da 600 g o 1,2 kg che verranno lavorati a mano.

Una volta stesi, si dà una forma ovale con uno spessore di un paio di centimetri. Sopra viene spennellato l’olio e poi aggiunti la cannella e i chiodi di garofano in polvere. In seguito vengono riempite con uva passa e noci tritate. L’impasto così come si presenta viene arrotolato per tutta la lunghezza e poi viene chiuso a forma di ciambella. Per unire i due lembi, la ciambella viene sigillata con uno stemma a forma di sole: si mantiene questo sigillo che identifica come un marchio la provenienza del prodotto. Una volta preparata la ciambella, viene nuovamente lasciata a lievitare un’altra ora. In seguito vengono infornate in forno a temperatura di 200 gradi.

Dopo 20 minuti di cottura, nei grandi forni le ciambelle che si trovano davanti vengono messe dietro scambiandosi di posto. Dopo altri 20/30 minuti sono pronte. Quando il colore diventa dorato, il prodotto è pronto. Nel paese chiamato Caliserna, un panificio che continua la tradizione pasquale così come viene tramandata dalle vecchie generazioni è quello di Pietro Greco, il quale garantisce che la differenza tra le cullure di Campana e quelle dei paesi limitrofi è data non solo dall’impasto particolare ma soprattutto da un ingrediente segreto, custodito gelosamente dal panificio. Nel periodo di Pasqua, fino a qualche anno fa c’era ancora l’usanza di offrire l’utilizzo del forno a tutte le donne del paese per permettere loro di preparare gli impasti e di infornarli.

«Ognuna di loro preparava le collure che servivano per la propria famiglia e soprattutto per spedirli ai figli che lavoravano al Nord o in Germania» ci racconta Pietro Greco con un pizzico di nostalgia. Durante i giorni della Settimana Santa, c’era un via vai di donne – se ne potevano contare circa 15/20 al giorno – che, in un clima allegro e gioviale, riempivano le strade del paese con le fragranze dei prodotti del forno.

La storia del panificio Greco

Il panificio di Pietro Greco è stato comprato nel 1975 dalla signora Caterina Caccuri, detta Rina ’e Pirun, che con l’aiuto del marito e dei figli – allora ancora bambini – è riuscita a condurre, per tutti questi anni, l’attività della panificazione con spirito di sacrificio e rinunce nella cura della casa. Ricorda ancora quando era costretta a svegliare i figli di 6-8 anni alle 5 del mattino per chiedere un aiuto nella consegna.

Oggi ha 84 anni e non lavora più al forno, che ha lasciato con orgoglio all’ultimo dei suoi quattro figli, Pietro, ma appena può torna nel luogo che ha amato per una vita intera e rivive le emozioni e la fatica dell’impasto. Di quegli anni è rimasto poco oggi nel locale del panificio: il vecchio tavolo di legno massello che dominava la stanza è stato sostituito da uno più efficiente di acciaio, come le altre strumentazioni che si sono adeguate alle normative vigenti. Eppure qualcosa è ancora lì sopravvissuto ai cambiamenti: le tavole di legno, le cosiddette madie, ricoperte di tessuto di canapa, su cui vengono poggiati i panetti a lievitare.

Accatastate le une sulle altre, mostrano orgogliosamente i segni del tempo e il fascino del loro passato. Nel 1997 il figlio Pietro, dopo un’esperienza della vita di città, decide di tornare al paese natio e continuare l’attività di famiglia, convinto di poter trovare nella vita di paese la serenità e la tranquillità di cui aveva bisogno. Pietro ha sin da subito fatto crescere l’attività: innanzitutto ha sostituito il vecchio forno a legna con uno più grande elettrico a tre livelli, che gli permetteva di infornare quasi cento pezzi contemporaneamente.

Inoltre ha iniziato a esportare il pane e gli altri prodotti nei paesi limitrofi, giungendo anche nei punti vendita lungo la costa. Oggi è uno dei pochi panifici che mantiene la tradizione e Pietro, insieme a sua moglie Filomena, spera di poterla passare alla generazione che seguirà perché afferma «anche se a Campana siamo rimasti in pochissimi, spero che il paese non andrà a morire definitivamente e ci sarà sempre un baluardo che tramanderà le nostre origini» ha concluso fiducioso.