Parla Mary Sorrentino, madre di Federica Monteleone, sedici anni dopo il decesso della ragazza all’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia dove doveva subire una banale appendicectomia: «Ancora non so cosa sia successo là dentro» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«La cosa che mi amareggia di più è che quel giorno in ospedale ho pregato la dottoressa di salvare Federica, dicendole che mi sarei anche accontentata di spingerla in carrozzina per tutta la vita, presente a me ma non a sé stessa. Oggi che le lacrime mi hanno pulito gli occhi, con un’altra razionalità e molta più lucidità dico che è meglio averla persa. Io sto soffrendo, il mio dolore è un crescendo continuo, ma sono credente: sono convinta che lei viva libera e in un mondo migliore. Sono certa che Fede non avrebbe mai voluto rimanere paralizzata: era una danzatrice, avrebbe voluto fare ricerca, correre incontro alla vita. Penso che se il Signore l’ha messa davanti alla scelta di vivere paralizzata o di rimanere al suo fianco non ha avuto dubbi: ha scelto di andarsene».
Mary Sorrentino oggi non ha dubbi: la porta lei, la croce. La sua e quella di sua figlia. Federica ha messo le ali, lei è sprofondata nell’inferno che finirà quando finalmente potrà riabbracciarla.
I 16 anni di Federica Monteleone
Sono passati sedici anni dal 19 gennaio 2007. Sedici anni come l’età che aveva Federica quando è entrata nella sala operatoria dell’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia per una banalissima operazione di appendicite. Ne è uscita in coma, a seguito di un’anossia celebrale che l’ha condannata a morte sette giorni dopo.
Sedici anni «e ancora non so cosa sia successo là dentro: me l’hanno uccisa, e non mi hanno neppure detto come». All’inizio non esistevano colpevoli né gli estremi per un processo, poi sono arrivate condanne, conferme di condanne, annullamenti con rinvio. Nulla che abbia fermato il dolore, la voragine aperta da quel giorno. Quel giorno la madre aveva capito subito che era successo qualcosa, prima ancora di quando l’avevano fatta entrare in una stanzina buia ed appartata, dicendole che c’erano complicazioni. Poi la notizia: la prospettiva migliore era che sopravvivesse in stato vegetativo. Peggio della morte, per lei.
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Morire di malasanità
È impossibile trovare dati aggiornati sui casi di malasanità, che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità in Europa vanno dall’8% al 12% dei ricoveri. In Italia non abbiamo numeri certi, ma uno studio recente segnala oltre 320mila casi.
E in Calabria? L’ultimo è Eugenio, 29 anni, morto il 15 marzo a Corigliano perché in ospedale non si è trovata una barella adatta. Ma i casi malasanità in Calabria sono davvero troppi, tanti dei quali finiti con il decesso del paziente. Nomi che si aggiungono ai nomi. Croci che entrano prepotenti nelle famiglie delle vittime e non se ne vanno più.
Hanno smesso di contare da anni i casi di malasanità, eppure la nostra regione detiene anche questo record: circa il 25% del totale nazionale. Con buona pace di quanto stabilito dall’art. 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”.
L’omertà, il primo male
Una serie di “non ricordo” intessuta in circa otto anni in tribunale tra un processo e l’altro, tra un’udienza e l’altra: questa la sintesi del processo «per individuare gli assassini di Federica». Mary Sorrentino Monteleone non ha dubbi: è una cosa che viene consentita anche dalla nostra giurisprudenza.
Caso emblematico l’interrogatorio sotto giuramento a una persona presente in sala operatoria.
Prima domanda: nell'immediatezza si è parlato di quello che poteva essere successo? “Non ricordo”. Seconda domanda: subito dopo ne avete parlato con i vostri colleghi? “Non ricordo”. Terza domanda: oggi che cosa ricorda di quel giorno? “Niente”.
Racconta Mary con un filo di voce: «Forse in quel momento l’essere umano ha prevalso sul ruolo. Il giudice si è alzato battendo i pugni sul tavolo, chiedendo con voce alterata “ma gliene frega qualcosa che una ragazza di 16 anni oggi non c’è più, è volata in cielo da quella sala operatoria dove lei stava lavorando?”. Non ci ha pensato un attimo a rispondere, una freddezza assoluta, “no”. Se questa non è omertà dimmi tu cosa è».
La giustizia non restituisce le vite cancellate
La giustizia che tarda ad arrivare, e quando arriva è sommaria. Il nome di Federica che prima risuona ovunque, a partire dall’Astronave, il palazzo sede del Consiglio Regionale che le ha dedicato una sala. Diventa un progetto, “Federica per la vita”, fondazione socio-sanitaria che parte con grandi speranze e poi si arena nell’indifferenza.
«Abbiamo dato un esempio importante: la nostra forza, la nostra voglia di giustizia, anche quando ci dicevano che era inutile questa battaglia contro i medici. E poi, quando è arrivata l’ultima sentenza, ci hanno detto: adesso potete cantare vittoria… No, nessun canto vittoria, perché non ho avuto giustizia. Federica se la sarebbe meritata, almeno un po’ di giustizia. E invece, pur avendo ottenuto delle condanne che hanno riconosciuto queste persone colpevoli di aver ucciso mia figlia, alla fine ognuno è rimasto al suo posto, qualcuno ha addirittura fatto carriera, pensando bene di trasferirsi dopo essere stato coinvolto in due casi nello stesso ospedale. Dopo la morte di Federica e di Eva Ruscio quel gran signore ha pensato bene di trasferirsi al Nord, continuando a lavorare dove nessuno lo conosceva. Davvero devo cantare vittoria? O a cantare sono loro, gli assassini di mia figlia?».
Gli amici di dolore
Perdere una persona cara. Continuare a perderla ogni volta in cui si cerca giustizia. Il “non ricordo”, l’indifferenza, la violenza verbale e psicologica che si aggiunge al dolore: la croce diventa sempre più pesante, spesso costringe a mollare. Mary sa bene che non è facile vivere e rivivere il trauma. «Purtroppo anche gli altri procedimenti dei miei “amici di dolore” hanno avuto lo stesso esito: qualcuno si è arreso prima, rinunciando al processo penale. Devi avere veramente tanta forza e in quel momento hai proprio zero delle tue forze. Qualcuno ha abbandonato, qualcun altro è andato avanti, ma alla fine chi abbandona un cagnolino per strada sconta pene più forti di chi uccide in una sala operatoria».
Poi ci sono gli intrecci, gli incastri, gli imbrogli, le prese in giro. E allora al dolore si aggiunge la rabbia. «Basti dire che l’allora procuratore che poi è stato sollevato e condannato sempre per il caso di Federica, aveva affidato lo strumento più importante per le indagini – la colonna dove c'erano tutti i parametri vitali a partire dall’ossigenazione – in custodia al suo carissimo amico direttore sanitario, anche lui indagato. Purtroppo questa esperienza mi ha portato ad avere sfiducia in tre cose: sanità, giustizia e politica».
Una croce che pesa sempre di più
Arriva il momento in cui anche il fisico ti presenta il conto. La croce pesa così tanto che ti schiaccia.
Il conto Mary l’ha pagato in molti modi. Anoressia. Depressione. Ipocondria. Desiderio di autoannientamento. «Un peso che ho pagato personalmente, ma ho fatto pagare anche alla mia famiglia. È stato Saverio, il mio Save nei cui occhi continuo a cercare sua sorella, che mi ha fatto capire come mi ero ridotta. Il mio desiderio di farla finita non mi avrebbe permesso, come mi ero illusa, di rivedere Fede, ma me l’avrebbe fatta perdere per sempre». Si sta riprendendo a fatica, la mamma di Federica. Sa che è facilissimo ricadere, ogni giorno cerca di comportarsi al massimo delle forze, aiutandosi e facendosi aiutare. Dall’affetto. Dai medici. E da antidepressivi, ansiolitici, benzodiazepine.
«Più volte ho lottato, anche oltre quelle gocce, oltre a quelle compresse che oggi mi hanno restituito una vita quasi normale. Vivo ancora con la speranza di conoscere la verità che in sedici anni nessuno ha voluto dirmi, credo di avere diritto di sapere cosa è successo in quella sala operatoria, credo di meritare almeno una risposta, anche se poi non è punibile. E poi, allora, rinasceremo insieme».
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