Per chilometri di parole spese, promesse reiterate e proclami lanciati è davvero il ponte più lungo del mondo. Un’opera con moltissimi anni alle spalle prima ancora di vedere la luce, l’incompiuta più incompiuta della nostra già incompiuta regione. Sopravvissuto (nell’immaginazione) all’Impero Romano, al ventennio fascista e ai terremoti che nei decenni passati hanno devastato le due sponde reggina e messinese. Fedele alla legge di conservazione della massa, il ponte sullo Stretto non si crea, non si distrugge, ma si trasforma, almeno nei volti e nei nomi di chi ogni tanto lo ripesca come un coniglio dal cilindro.

Mi ritorni in mente…

Prima che l’ex ministro alle Infrastrutture Paola De Micheli tornasse alla carica con l’idea di un collegamento tra Sicilia e Calabria, passando poi la palla al suo successore Enrico Giovannini, ci aveva pensato il fu titolare dell’Interno Angelino Alfano (lui sì, dissoltosi nel nulla) a riportare il ponte in auge nel suo “piano di rilancio del Mezzogiorno” presentato allo Svimez nel 2015. Rilancio che deve essersi schiantato contro qualche pilone immaginario. «Non è possibile che l’Alta velocità arrivi fino a Reggio Calabria e poi ci si debba “tuffare” nello Stretto, per poi ricominciare a viaggiare a… bassa velocità. Questo è un progetto che vogliamo rilanciare», aveva detto l’ex ministro agrigentino che non si sa bene viaggiando su quale futuristica strada calabrese fosse giunto così spedito a simili considerazioni.

«Pronto in dieci anni». Ma era il 1985

Ma Alfano non fu l’unico a “pontificare”. Schiere di rappresentanti istituzionali di diverse cromature, tempo addietro, avevano proclamato non solo di voler fare il ponte, ma di volerlo finire in tempi brevi. Indicativo è un articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1985 che così esordiva: «Uscito dalla fase delle idee per entrare in quella della concreta realizzazione…». A dare il “via” era stato nientemeno che l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi che la definì «un’opera da primato mondiale che attirerà su di noi l’attenzione di tutti i Paesi civili». Peccato che Craxi non ne avrebbe mai visto la fine. E nemmeno l’inizio. Ma le previsioni, allora, erano più che rosee: «Tempo previsto per l’opera, dieci anni». Si parla infatti di «ultimazione entro il 1995-1996; certamente prima del Duemila». Certamente. E ci si mise anche “al sicuro” da eventuali intoppi: «Per evitare le solite lungaggini, ritardi e lentezze burocratiche di tutte le opere pubbliche saranno attribuiti al presidente del Consiglio (che li eserciterà tramite un Alto Commissario) i poteri sostitutivi nei riguardi di amministrazioni, enti ecc. inadempienti».

Un ponte per superare la povertà

A quanto pare non bastò. Venne il primo governo Berlusconi e poi vennero anche il secondo e il terzo che il ponte lo ebbero sempre nei loro pensieri. E nei suoi pensieri lo aveva anche Matteo Renzi mentre buttava giù il suo libro “La mossa del cavallo. Come ricominciare insieme”, uscito nel 2020, tra le cui pagine si legge: «Per vincere la sfida della povertà serve più il ponte sullo Stretto che il reddito di emergenza».

Il “tesoro” dello Stretto

Un’opera prioritaria per molti, anche se alla luce dei fatti l’unica vera priorità è stata parlarne, sempre e comunque. Presentare progetti, discutere di ponti strallati o tunnel sottomarini, di campate, di corsie, di cavi d’acciaio. E far colare a picco nelle acque dello Stretto un tesoro che nessun navigatore avventuroso ritroverà mai. Già nel 1969, circa tre lustri dopo la costituzione del Gruppo Ponte di Messina Spa, le fantasie si “concretizzarono” in un concorso di idee internazionale che vide la presentazione di 143 progetti e dodici vincitori. Tre miliardi e 200 milioni di lire volarono via per i soli studi preliminari.

L’epopea della “Stretto di Messina Spa”

Poi ci fu un altro passo “concreto”: la costituzione, nel 1981, della società concessionaria “Stretto di Messina”, a cui fu affidata la competenza esclusiva sulla progettazione e sulla realizzazione del ponte. In soldoni, letteralmente: quasi 960 milioni di euro, secondo quanto riportato in una relazione del 2017 dalla Corte dei Conti, volati via da allora al 2013, quando venne messa in liquidazione. Capitolo chiuso? Neanche a parlarne. In quella stessa relazione si legge: «L’onere annuo per il mantenimento in vita della concessionaria, sceso sotto i due milioni di euro solo nel 2015, risulta ancora notevole». 

E insomma, senza contare il contenzioso da circa 700mila euro apertosi con l’ex general contractor, la cordata Eurolink capeggiata da Impregilo (oggi WeBuild), attualmente la società – di cui Anas detiene quasi l’82% delle quote, le restanti fanno capo a Rfi (13%), Regione Calabria e Regione Sicilia (circa il 2,5% a testa) – continua a macinare soldi. Tutto riportato in assoluta trasparenza sui siti di Anas e Stretto di Messina Spa. Solo per il commissario liquidatore, Vincenzo Fortunato, la società ha continuato a sborsare centoventimila euro all’anno fino al 2020 (poi ridotti a centomila), a cui si affiancano i compensi per la triade del collegio sindacale per un totale di 21mila euro all’anno. E poi c’è l’elenco dei pagamenti per servizi e forniture vari: 477.487 euro nel solo 2020. Non male per un giocattolone riposto in soffitta otto anni or sono.

Il nulla al di qua del ponte

Ma è pur vero che, a cicli regolari, a qualcuno torna la voglia di giocare. O di viaggiare con la fantasia, fin quaggiù, in riva allo Stretto. Solo con la fantasia però. Per il resto abbiamo treni che in gran parte del territorio sono mosche bianche, un’intera fascia costiera –  la ionica – in cui l’unica strada a lunga percorrenza è la Statale 106 (la cui cattiva fama attraversa i luoghi più agevolmente delle auto che sono costrette a transitarvi) e un’autostrada che è stata definita “completata” nonostante insistano ancora diversi punti critici e nonostante questo completamento contempli solo due corsie (praticamente poco più di una strada cittadina rispetto ad altre autostrade d’Italia). Verrebbe da chiedere: non ponti ma opere di bene…