Nell’azienda in cui lavorava era una “quota rosa”. Ma di colori lei ne racchiude diversi. Ha il rosso della rabbia e della passione con cui sta conducendo da un anno e mezzo una battaglia per un diritto che continua a scivolarle di mano e il verde della speranza che non ha perso nonostante tutto, l’arancione dell’energia con cui racconta le sue disavventure e il giallo dell’ottimismo che ancora la fa sorridere, tra una lacrima e l’altra. Elda Renna è un’esplosione di emozioni e caratteri contrastanti, ha la fragilità del cristallo e la durezza del ferro, le paure di una bambina che affronta il mondo e il coraggio di un’amazzone che parte per la guerra. È bellissima, per tutto questo e per tutto quello che le parole non riescono a esprimere.

Unica donna autista della Simet, ditta di autotrasporti di Corigliano Rossano che il 13 settembre 2022 le diede il benservito assieme ad altri 37 colleghi, Elda Renna aveva impugnato il licenziamento riuscendo a ottenere, il 30 novembre scorso, sentenza di reintegro al termine di una causa di lavoro incentrata proprio su motivazioni di genere. A seguirla e supportarla lo staff tutto al femminile dello studio legale Susanna Cecere. Da allora, però, è ancora a casa. Di mezzo c’è stato l’accordo con Birs – Busitalia Rail Service – società del gruppo Fs che ha affittato un ramo d’azienda di Simet. Che però non ha portato alcuna luce nella vita di Elda.

Partiamo da qui. Cosa sta succedendo?
«A gennaio ho denunciato Birs e Simet per non aver rispettato questa sentenza, che peraltro stanno utilizzando per altre cause in diverse parti d’Italia. È una sentenza bellissima perché ha dei riferimenti molto forti alla Costituzione, inoltre c’è un riconoscimento danni per il licenziamento che è “aperto”, cioè il giudice obbliga l’azienda a risarcirmi dal giorno in cui sono stata licenziata a quello in cui sarò reintegrata. Ci sono stati dei contatti telefonici con le società ma che non hanno prodotto alcun documento ufficiale, così il 19 marzo sarò di nuovo in aula per l’udienza».

Come la fa sentire il fatto di essere riuscita a ottenere una sentenza che può essere d’aiuto ad altre donne nella sua stessa situazione ma che finora non è riuscita ad aiutare lei?
«Con l’avvocato abbiamo cercato di chiudere la vicenda bonariamente, ma dall'altra parte non abbiamo visto l’impegno concreto a chiudere un accordo. Cosa che è invece avvenuta con cinque miei colleghi uomini che sono stati ripresi e stanno lavorando. Ho vissuto tutto questo come una doppia discriminazione: non solo il licenziamento illegittimo, adesso gli altri vengono reintegrati e io no. Diciamo che non è stato un bel periodo per me, anche perché a un certo punto le forze incominciano a crollare».

Era l’unica autista dell’azienda. Quanto ha dovuto faticare per questo posto?
«Io sono pugliese, la mia storia comincia in Puglia. Già quando facevo la scuola guida per prendere la patente ho avuto i primi problemi perché gli altri allievi mi guardavano con sospetto. Poi ho cominciato a viaggiare. Durante le soste ci si ritrova con tanti colleghi e all’inizio non è stato facile sentirsi dire “che ci fai tu qua?” o “le donne devono fare figli”. Ricordo ancora un colloquio di lavoro con un’azienda della mia regione d’origine, mi dissero: “E chi lo dice alle mogli degli autisti?”. Ho dovuto faticare dieci volte più degli uomini per dimostrare di saper fare certe cose come lavare il parabrezza del bus. Qui in Calabria ho avuto un problema con 12 autisti che andarono in ufficio a dire che non volevano lavorare con me perché io non ero capace e facevo perdere tempo».

Si è chiesta il perché di questo atteggiamento e che risposta si è data?
«Lì per lì ho solo pianto. Poi si cresce. L’unica spiegazione che mi sono data è che una donna culturalmente ed economicamente libera ai maschi – che è diverso dal dire uomini – fa paura. Non sono capaci di confrontarsi».

L’episodio più brutto o la frase più fastidiosa che le hanno detto?
«Ha presente la canzone di Fiorella Mannoia a Sanremo? Dice: “Mi chiamano con tutti i nomi. Tutti quelli che mi hanno dato”. Quando ho iniziato io 21 anni fa, una donna che faceva questo lavoro veniva considerata una poco di buono. È stato difficile anche a livello personale, amoroso. Io non ho una famiglia e credo che a influire sia stata anche la mia scelta professionale, gli uomini con cui ho avuto storie importanti mi avevano chiesto di lasciare il mio lavoro. Sono questi atteggiamenti che poi a volte sfociano nei brutti casi di cronaca di cui i media danno notizia. La violenza sulle donne parte dalle parole».

Dopo aver perso il lavoro ha cercato altro nel suo ambito? Ha trovato ostacoli?
«Premetto: sono follemente innamorata della Calabria e non ho intenzione di lasciare questa terra. Quindi sì, ho cercato in un’altra azienda sempre da queste parti. Mi è stato risposto che non hanno mai assunto donne né hanno intenzione di farlo. Nonostante io abbia diversi titoli e più di vent’anni di esperienza, essendo donna per qualcuno valgo zero».

Secondo lei in questi dinieghi ha pesato, oltre al fatto di essere donna autista, anche l’essersi fatta portavoce del gruppo di lavoratori licenziati in Simet?
«Sicuramente questo spaventa. In diversi ambiti c’è ancora la mentalità secondo la quale il lavoratore è schiavo e la donna lo è doppiamente in quanto lavoratrice e in quanto donna».

Oggi è 8 marzo. Qual è l’augurio che si sente di fare a tutte le donne?
«Che possano essere sempre libere. Fidanzate, sposate, ma libere. Libere di respirare la vita a pieno».

Per lei invece cosa vorrebbe?
«Semplicemente una vita normale. Lavorare, essere felice. Perché non lo sono, questa storia mi ha devastata. Ho compiuto da poco 50 anni. Vorrei potermi mettere un bel vestito e camminare su una spiaggia gridando: “Sono felice”. Questo vorrei per me stessa, un po’ di felicità».