Le sorelle povere di Santa Chiara sono arrivate in provincia di Cosenza da Palermo quasi venti anni fa: «Le grate sono il segno della nostra appartenenza esclusiva al Signore»
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La tovaglietta di raso verde, un ciuffo di mimose, il cestino della frutta ricolmo di mandarini lucidati uno ad uno: nel parlatorio che s’affaccia sulle grate di legno chiaro, di buon’ora mani delicate hanno preparato il desco per l’ospite tanto attesa.
«Ci chiedevamo come festeggiare il ventennale del nostro arrivo a Scigliano, e oggi il Signore ci ha mandato una giornalista. In Quaresima non potremmo ricevere nessuno, ma per te abbiamo fatto un’eccezione». Suor Chiara è la madre abadessa delle Clarisse, giunte nel monastero intitolato a Santa Maria delle Grazie il 13 giugno 2005: «Fu un vescovo della diocesi di Catanzaro a richiedere la nostra presenza in Calabria».
Lasciato il monastero di Castelbuono in provincia di Palermo, avremmo dovuto trasferirci a Conflenti in una struttura che però non era ancora disponibile. Così trovammo ospitalità in questo antico convento, un tempo abitato dai frati cappuccini. Doveva essere soltanto una sistemazione provvisoria, e invece da Scigliano non siamo più andate via».
Ci sono sere di cielo terso in cui sembra possibile riuscire a toccare le isole Eolie con un dito. Dalla finestra della sua cella, suor Chiara accarezza con lo sguardo il mare di Sicilia infuocato dal tramonto e il pensiero va a Mazara del Vallo, dove ha vissuto fino all’età di diciotto anni.
«Ero una ragazza normale. Il sogno di costruire una famiglia, la facoltà di filosofia e l’ambizione di insegnare all’università. Mentre cercavo la verità nelle teorie dei grandi pensatori, il Signore Gesù Cristo mi ha folgorato. Tutti dicevano che ero troppo giovane per fare una scelta così radicale, ma io sentivo che avrei potuto dedicare totalmente la mia vita a Dio soltanto attraverso la clausura».
Nel giardino del monastero di Scigliano, un glicine annuncia alle clarisse l’arrivo della primavera: grappoli di fiori lilla cullati dal vento lasciano nell’aria un profumo delicato che sa di nostalgia. «Le grate che ci separano dal mondo esterno sono il segno di un amore radicale. Le sorelle povere di Santa Chiara, ad esempio, possono tornare a casa soltanto se un familiare si ammala gravemente oppure muore. Ma niente è più come prima.
«Durante la mia permanenza a Mazara del Vallo, dove mi sono recata un po’ di tempo fa per visitare mio padre colpito da un infarto, le persone avevano la sensazione che mi portassi dietro le grate. Non ero io a mettere una distanza, eppure loro percepivano egualmente la mia esclusiva appartenenza al Signore».
Suor Maddalena - originaria di Cosenza, una laurea in Lettere classiche all’Unical e insegnante di sostegno in una scuola media di Bergamo fino all’età di trentatré anni - ha lasciato brevemente il monastero di Scigliano per raggomitolarsi al capezzale della madre morente: «Sono andata in ospedale non come figlia ma come sorella povera, incaricata dal Signore di portare la liturgia sul letto di un infermo».
Le clarisse non hanno un telefono cellulare, utilizzano in comune un’unica casella di posta elettronica e parlano al telefono con i familiari soltanto una volta ogni quindici giorni. Il vecchio televisore ha smesso di funzionare da un pezzo. Le notizie arrivano dai quotidiani Avvenire e Osservatore Romano.
La giornata inizia alle sei ed è scandita dalla liturgia delle ore. «Preghiamo anche per chi non prega, e ci sentiamo la voce della Chiesa che all’alba si alza e canta allo sposo». La messa delle otto di mattina - che un sacerdote celebra nella chiesa adiacente al monastero - è aperta ai fedeli. La madre abadessa aggiunge: «Gli abitanti del luogo sanno che siamo qui per loro, quindi possono venire a consegnarci le loro angosce, le loro sofferenze, ma anche le loro gioie. Dove tutti partono, noi invece abbiamo scelto di restare».
Le suore di clausura di Scigliano sono francescane che vivono del loro lavoro, a partire dalla terra coltivata con cura, che ricambia generosa. «Produciamo liquori, ostie, candele e oggetti di artigianato, per i quali riceviamo offerte che ci garantiscono il sostentamento quotidiano. Il resto - confessa suor Chiara - arriva dai miracoli che sperimentiamo quotidianamente: spesso, quando ci accorgiamo che manca qualcosa, ecco che suona il citofono e, senza che avessimo chiesto niente, ci portano proprio ciò di cui avevamo bisogno».
Le attività lavorative e le preghiere – recitate qualche volta anche in solitudine nel giardino del monastero – scandiscono una lunga giornata che si conclude con la cena. «È il momento in cui si allenta la tensione. Dopo aver mangiato e riordinato la cucina, guardiamo un film sul computer, ascoltiamo musica e accenniamo qualche passo di danza. La clausura non è negazione della libertà. Nulla della nostra vita e del nostro essere donna ci è stato tolto».
PS: Nel monastero di clausura di Scigliano, oltre alle madre abadessa suor Chiara e a suor Maddalena, vivono suor Maria Paola che suona la cetra divinamente, suor Amata che preferisce ascoltare e non parlare di sé, e suor Emanuela andata ad assistere la madre malata.