«Non si accoglie per religione, credo, pietà o fede. Non si accoglie neanche per convenienza, per scelta, calcolo, ragionamento. Neanche per sentimento, affetto o ardore. Non si accoglie perché sono giovani o bambini, o donne o adulti capaci di lavorare; non si accoglie perché lo meritano o potrebbero meritarlo. In fondo non si accoglie neanche perché ne hanno diritto, o pensiamo ce l’abbiano. Si accoglie perché sono esseri umani, e noi siamo esattamente quella stessa cosa che sono loro». Forse il succo è tutto qui.

O qui: «Non basta essere nate brave persone, crescere con modelli di riferimento considerati giusti, o adeguati a un’idea di società progressista. Certo, questo aiuta. Però servono i salti di frontiera, in senso fisico e in senso figurato. I saltatori di frontiere, coloro che in ogni modo spostano la domanda un metro più in là destabilizzando gli equilibri, saranno qualche decina per generazione, per ogni Paese. Quello che possiamo fare noi è dargli spazio, e provare a esserlo anche noi durante i nostri incontri quotidiani e nelle scelte scomode che compiamo».

Verrebbe da riportarne ancora di passaggi. La verità è che il succo scorre tra le pagine, dentro ogni frase di “Troppo neri”, il libro scritto da Saverio Tommasi con le fotografie di Francesco Malavolta. Un lavoro senza confini quello del giornalista fiorentino e del fotoreporter di origini coriglianesi, due saltatori di frontiere che hanno unito i loro sguardi e le loro anime, incrociandoli ad altri sguardi e altre anime, migliaia, in un viaggio lungo anni, lungo vite. Esistenze in fuga, aggrappate le une alle altre, aggrappate a se stesse.

Il succo scorre tra le pagine e ti scorre dentro, lo mandi giù anche se sai che ti farà male, che brucerà, perché non puoi fare altrimenti. E non per l’ostinazione a finire un libro iniziato né per sentirsi buoni ma per lo stesso motivo di cui sopra: perché loro, i “troppo neri” raccontati, sono umani e noi siamo la stessa cosa che sono loro. E da umano senti l’istinto di andare avanti, di proseguire anche tu quel viaggio attraverso i volti descritti da parole a caratteri neri, troppo neri, o catturati dall’obiettivo della macchina fotografica.

Leggi anche

Saverio Tommasi e Francesco Malavolta calpestano quelle terre già calpestate da migliaia e migliaia di piedi, grandi e piccoli. Calpestano e si fermano a raccogliere storie, a cercare di comprendere senza mai riuscirci fino in fondo perché non si comprende fino in fondo ciò che non si vive. Sentono, però, e tu con loro. Valicano, saltano frontiere, ferendosi – e ferendoci – coi fili spinati, trattenendoci al di là di un muro innalzato nel pieno della civilissima Europa, le dita intrecciate alle loro e a quelle delle persone ferme nell’attesa di un’apertura, di un varco verso la speranza, con la pazienza dell’urgenza e viceversa. Persone che si tengono per mano, per segnare il proprio posto nella fila, rispettando il proprio turno nonostante tutto e a tutti insegnando cos’è il rispetto.  

Tommasi e Malavolta ci trascinano nella loro ossessione, quella di non tenere solo per se stessi le storie trovate sul cammino inarrestabile di un’umanità in fuga: «Nessuna delle persone con cui ho parlato, quelle che mi hanno confidato la loro storia, lo ha fatto per me – scrive Tommasi –. Lo hanno fatto perché quelle storie le facessi risuonare al di là delle nostre conversazioni, perché se nessuno le racconta rischiano di non essere mai esistite, di scivolare via come una lista della spesa».

E risuonano, quelle storie, in una sera di ottobre al Museo diocesano e del Codex di Corigliano-Rossano. Ci sono gli autori e c’è la gente che per due ore ascolta ma non in religioso silenzio perché anche qui non ci sono frontiere e la presentazione è un dialogo tra amici, una serata tra gente che ha deciso di stare «dalla parte giusta del mondo», come ama dire Francesco Malavolta. Si ride e si scherza, anche, ma sempre rimanendo serissimi. E ci sono poi gli abbracci e i baci, e le dediche sul libro che diventano un gioco da fare insieme - «Voi mi dite una parola del vostro quotidiano e intorno a quella io costruisco la dedica», propone Saverio Tommasi prima di prendere la penna in mano. E c’è una foto di gruppo, alla fine. Autori, organizzatori, pubblico. Vicini gli uni agli altri in un unico “noi”. Gente che si conosceva e gente che non si era mai vista prima. Ci si stringe per entrarci tutti, qualcuno si abbassa o si scosta per non impallare quelli dietro. Certi libri – e certe serate – servono anche a questo. Danno una spinta. E insieme si salta.