La legge 211 del 20 luglio 2000 ha istituito la Giornata della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari nei campi nazisti, ma questi ultimi sono stati a lungo dimenticati: almeno per quarant’anni.

IMI. Acronimo di Internati militari italiani. Dopo la firma dell’armistizio tra l’Italia di Badoglio e gli alleati Angloamericani, l’otto settembre del 1943, i Tedeschi fecero prigionieri un milione di militari italiani: 196mila scamparono alla deportazione, 13mila persero la vita nel siluramento delle navi inglesi che trasportavano i militi dalle isole greche alla terraferma, 94mila furono quelli che decisero di passare sul fronte opposto, 710mila i militari deportati nei campi di concentramento in Germania.

Tra loro, anche Pasquale Rennis, originario di Cosenza, catturato e fatto prigioniero in Francia, dov’era stato mandato a combattere. Trasferito in Germania, finì in un campo di concentramento e fu destinato al lavoro coatto che, nel suo caso, consisteva nella raccolta delle macerie degli edifici bombardati dagli aeroplani alleati.

Tornò in Calabria dopo una prigionia durata quasi due anni e un viaggio lungo e tormentato. Francesca Rennis, docente di Storia e Filosofia nei licei di Belvedere Marittimo, membro del direttivo provinciale ANPI di Cosenza e dell’Istituto calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia contemporanea, racconta la storia del padre Pasquale e degli altri militari internati nei campi di concentramento della Germania.

Al fine di escludere le garanzie riconosciute dalla Convenzione internazionale di Ginevra, Hitler ottenne che lo status giuridico dei militari italiani passasse da prigionieri di guerra a internati militari. Dall’autunno 1944, la condizione dei nostri militi fu semplicemente quella di lavoratori civili: in questo modo venne loro negata l’assistenza da parte della Croce Rossa.

I più fortunati vennero impiegati nelle fattorie e nelle campagne. Gli altri, nell’industria bellica, per la produzione dei missili a lunga gittata V2. Vestiti della sola divisa estiva che avevano addosso al momento dell’arresto, i prigionieri lavoravano in media nove ore al giorno, a fronte di un’alimentazione a basso importo calorico, che nei giorni più fortunati si arricchiva di topi, rane, bucce di patate e rape.

Cinquantamila internati militari italiani morirono durante la prigionia a causa di lavoro forzato, malnutrizione, epidemie, esecuzioni militari e bombardamenti. Altrettanti sarebbero deceduti negli anni a venire, una volta tornati in Italia. Liberati i campi di concentramento, i militari internati italiani dovettero organizzarsi da soli il viaggio verso casa. Molti, presentatisi ai distretti militari di appartenenza, si sentirono dire che, prima di riabbracciare i propri cari, avrebbero dovuto completare il servizio di leva.