Il racconto ripercorre le origini del dolce tipico. La storia si lega all’Altopiano della Sila, ai suoi paesaggi innevati e alla generosità della terra calabra
Tutti gli articoli di Attualità
PHOTO
Si racconta ancora oggi una bella storia, forse una leggenda. Si parla della ‘pitta mpigliata, sulle sue misteriose origini, su come nacque e si diffuse lo straordinario dolce di Natale calabrese.
È una storia che riporta ai tempi in cui l’altopiano della Sila per molto mesi all’anno rimaneva sommerso dalla neve, così tanta neve che nei mesi più rigidi toccava regolarmente i 3 metri di altezza. Gli inverni erano lunghissimi, difficili per tutti: non c’erano strade, nemmeno la ferrovia, imperava la povertà.
In un piccolo villaggio rurale, a pochi chilometri da San Giovanni in fiore, arrivò lentamente un ragazzo a cavallo, era un soldato, ma non si sa bene da quale fronte venisse, né tantomeno dove fosse diretto. Raggiunse, scampando miracolosamente alla bufera, un piccolo villaggio di contadini, e con fatica riuscì a bussare alla porta della prima casetta. Con un filo di voce chiese aiuto. Si affacciò una donna, accorse il marito.
Soccorsero subito quel giovanissimo soldato, lo fecero riscaldare al fuoco che ardeva in un grande caminetto, gli fecero bere subito qualcosa di caldo.
Intanto la donna si mise all’opera per preparargli qualcosa da mangiare, perché dovevano essere diversi giorni che non toccava nulla il soldato, pensò la donna. In casa c’era poco, solo i prodotti che offriva l’orto e la campagna. Iniziò a preparare un impasto con la farina e le uova, aggiunse olio e zucchero, infine uva secca e noci, poi un filo di miele. Realizzò così una pitta, ripiena di quello che aveva in casa.
La pitta venne cotta nel forno della stufa alimentata con i carboni del caminetto. Dopo mezz’ora era pronta, ne diede subito un pezzo al giovane soldato affamato. Che apprezzò molto.
Il ragazzo venne ospitato anche per la notte. Nonostante il freddo e un materasso arrangiato posto per terra, dormì ininterrottamente per circa 10 ore.
Prima di ripartire, la donna gli donò la pitta che nel frattempo aveva rifatto. Il marito da un ramo aveva fatto un pezzetto di legno di pochi centimetri, che la donna utilizzò per tenere unita la pitta. Una pitta impigliata, cioè infilzata, e da qui il nome del dolce. Che diventa pitta nchiusa in altre zone della Calabria.
Il soldato si avventurò in un viaggio di alcune ore, fino al suo paese posto sulle cime dei paesi del crotonese.
Portò quel dolce alla famiglia, che gradì molto. La pitta ‘mpigliata si diffuse rapidamente di paese in paese.
Ovviamente mi sono inventato tutto, questa leggenda non esiste, ma va bene così.
Di certo c’è che in un tempo molto lontano la pitta ‘mpigliata veniva preparato per occasioni importanti, ad esempio le cerimonie nuziali, di cui si trova traccia in un atto del 1728 redatto a San Giovanni in Fiore, anno in cui la famiglia Giaquinta concedeva la propria figlia Angelica al possidente Battista Caligiuro, stilando un contratto di matrimonio in cui veniva anche specificato che: “...a far la bocca dolce ai commensali penserà la famiglia dello sposo che, a fine pasto, dovrà offrire la pitta ‘mpigliata, preparata anzitempo, curando che la pitta sia di finezza giusta.”