Liuba non parla l’italiano e neanche l’inglese. Liuba, in realtà, parla pochissimo. Ha visto l’orrore con i suoi occhi e, seduta in un furgone, guarda dritto davanti a sé. La sua corsa verso la salvezza comincia così, fuori il silenzio e dentro la paura.

Liuba è arrivata in Italia dall’Ucraina con i suoi 19 cani a bordo del furgone di un’associazione cosentina, la New Way. Un gruppo di 9 volontari con sede a Marano Marchesato, nato circa tre anni fa. A raccontare il viaggio è il suo presidente Pietro Dodaro, 39 anni. Un viaggio organizzato in tutta fretta, tra mille difficoltà, 51 ore alla guida in due giorni e mezzo.

La chiamata dell’Enpa

Un viaggio che inizia con una chiamata da parte dell’Enpa (Ente nazionale protezione animali): ci sono da portare in Italia una donna e i suoi 19 cani. Liuba, questo il suo nome, deve raggiungere sua sorella Tatyana, da qualche giorno ospite con altri 58 cani in un rifugio a Perugia. Le due donne sono scappate insieme da Zaporižžja, dove hanno un allevamento di cani. Quando le bombe sono arrivate nella loro città, a pochi chilometri dalla centrale nucleare più grande d’Europa, hanno preso con sé i loro animali e poche cose e si sono messe in cammino per venire in Italia. Ma arrivate alla frontiera con la Slovacchia sono state fermate: 19 dei loro cani sono infatti di taglia troppo grande per essere trasportati nel furgone che è venuto a prenderli. Liuba può scegliere di proseguire il viaggio assieme alla sorella e a una parte dei loro cani, ma sceglie di non abbandonare gli altri animali: resta con loro a Užhorod.

A questo punto l’Enpa si attiva chiedendo aiuto alla New Way. «Mi ha contattato lunedì 14 marzo intorno all’ora di pranzo chiedendomi se potevo fare questo trasporto – racconta Pietro Dodaro –. Io mi sono attivato subito, ma c’era un po’ di timore perché non sapevamo bene cosa ci aspettava». Pietro però non si tira indietro, anche perché sa che il suo apporto è fondamentale.

Un furgone “speciale”

La New Way possiede infatti un furgone che altri non possiedono e nel quale possono essere trasportati cani di grossa taglia come quelli che aspettano al di là della frontiera ucraina. «Noi nasciamo come associazione di volontariato di tutela degli animali – spiega –. Adesso facciamo anche servizio di staffetta, cioè portiamo cani e gatti alle famiglie che decidono di adottarli. Abbiamo comprato un primo furgone dopo che avevo visto in che condizioni spesso sono costretti a viaggiare gli animali. Ho detto agli altri volontari: mettiamo insieme i soldi e prendiamo un mezzo nostro per fare i trasporti. Abbiamo cominciato così».

Il secondo furgone lo hanno disegnato a tavolino e poi hanno affidato i lavori a una ditta specializzata. È stato completato in 11 mesi. «Credo sia l’unico mezzo in Italia a poter trasportare tutti insieme tanti cani di grossa taglia. Per questo l’Enpa ci ha contattato: tra i 19 cani da trasportare ce n’erano alcuni tra i 70 e i 90 chili», sottolinea Pietro. Cinque mastini inglesi e tre cuccioli, 10 golden retriever e 1 flat.

«Abbiamo cercato di prendere un po’ di informazioni – continua a raccontare –. Io ho chiamato una persona ucraina che lavora qui a Cosenza, l’ho messa in contatto con la persona che aveva i cani per farmi spiegare un po’ di cose, sapere bene cosa avrei dovuto fare. Ho capito che c’era un problema: i cani non potevano uscire dal territorio ucraino perché la donna non guidava e le avrebbe dato un passaggio un ragazzo con un furgone, che però per la legge marziale non poteva varcare la frontiera».

Sette ore alla frontiera

La frontiera, quindi, deve varcarla Pietro. «Sono partito lunedì sera con un altro volontario, ci abbiamo messo circa 24 ore ad arrivare. Abbiamo fatto 4 panini al volo e ci siamo messi in cammino, senza fare soste. Di solito partiamo in tre per poterci dare il cambio alla guida e stancarci meno possibile, stavolta siamo andati in due perché il terzo posto sul furgone avrebbe dovuto essere occupato dalla donna che ci aspettava in Ucraina».

Arrivati alla frontiera slovacca comincia forse la parte più difficile. «Arrivati lì non capivamo dove andare – dice Pietro –. I poliziotti parlavano solo la loro lingua ed era impossibile capirsi. In più il ragazzo che era con me non aveva il passaporto, li ho pregati come ho potuto di farmi passare almeno la prima sbarra e farmi entrare nella zona neutra. Dopo più di un’ora si sono convinti a farci passare entrambi, ma quando siamo arrivati al secondo posto di blocco ci hanno fatto tornare indietro. Il mio amico è stato accompagnato alla frontiera e lasciato in mezzo alla strada, di notte con un freddo terribile. Io ho fatto la procedura d’ingresso e finalmente sono riuscito a entrare. Per fortuna ho trovato un poliziotto ucraino che parlava inglese e mi ha dato una mano».

Così, Pietro riesce a raggiungere l’altro furgone che lo aspetta con a bordo Liuba e i suoi cani. Gli animali vengono trasferiti, lui gli dà acqua e croccantini. «Ignoravo da quanto tempo fossero lì, sapevo che erano partiti da un rifugio vicino alla frontiera ma non sapevo né quanto ci avevano messo ad arrivare né da quanto fossero in attesa». I beni personali di Liuba sono contenuti in dei sacchetti, una trentina, che Pietro sistema nel furgone. «Intanto eravamo costantemente controllati in ogni movimento».

Il ritorno in Italia

Il viaggio di ritorno comincia dopo più di 7 ore perse dietro alla burocrazia. «Sono entrato alle 20.25 di martedì 15 e sono uscito alle 3.35 di mercoledì 16», ricorda Pietro. I momenti di ansia non sono mancati. «Io ero abbastanza tranquillo, ma il mio amico è rimasto fermo per ore in mezzo alla strada e vedeva pullman stracolmi di ragazzi e bambini e gente che scappava a piedi con buste e passeggini. Mi mandava messaggi giustamente preoccupato. Quando l’ho ripreso a bordo mi ha chiesto di allontanarci dalla frontiera il più possibile. Abbiamo fatto un’oretta di viaggio per portarci a distanza dal confine, poi ci siamo fermati a una stazione di servizio per 45 minuti perché eravamo davvero stremati. Abbiamo preso un caffè e qualcosa da mangiare per Liuba: penso che non mangiasse e non si lavasse da qualche giorno».

A bordo del furgone, Liuba rimane per lo più in silenzio. «Era molto taciturna, non so se per quello che aveva vissuto negli ultimi giorni o per carattere – dice Pietro –. Abbiamo comunicato pochissimo, lei non parlava l’inglese e quindi abbiamo usato il traduttore di Google ma si vedeva che non aveva molta voglia di parlare. Solo quando siamo arrivati al confine con l’Italia le ho indicato il cartello, lei ha seguito il mio dito e guardato: avrà capito cosa c’era scritto ed è venuto fuori il suo primo sorriso, poi si è messa a battere le mani più volte. Questa scena non la dimenticherò mai».

L’arrivo a Perugia di sera, dove ad aspettare Liuba e i suoi cani ci sono sua sorella Tatyana, assieme ai veterinari e ad altre persone che a distanza hanno dato una mano per il viaggio. «Io e l’altro volontario abbiamo finito di scaricare alle 23.30, preso due tranci di pizza e poi ci siamo fermati lì in un albergo a dormire: siamo crollati».

Di nuovo in Calabria

Giovedì mattina, il 17 marzo, la partenza per tornare in Calabria, ancora stanchi e pieni di emozioni. «Di solito noi ci emozioniamo quando consegniamo i cani a chi li adotta, vedere la gente che aspetta a braccia aperte ci ripaga di tutta la fatica. Stavolta è stato diverso: siamo partiti senza neanche il tempo di capire bene cosa stavamo facendo. E poi una volta arrivati lì abbiamo visto cose che non dimenticheremo: un sacco di militari, ragazzini coi mitra in mano».

Mentre parla, Pietro è già pronto per un altro viaggio. «Ne facciamo uno a settimana, ormai siamo conosciuti in Italia e all’estero perché offriamo un servizio basato non sulla quantità di animali da trasportare ma sulla qualità del trasporto. Abbiamo investito tutto sui furgoni perché per noi il benessere animale è prioritario». E in Ucraina sarebbe pronto a tornare? «Ho dato la mia disponibilità per altri viaggi. Solo, nei limiti del possibile, stavolta vorrei avere il tempo di organizzarmi meglio. Abbiamo guidato per 51 ore in due giorni e mezzo: la mia schiena ancora ne risente».