Luigi Baldan, ex militare veneto della Regia Marina, condivise la prigionia con il compagno originario di Cosenza. Il figlio Sandro oggi è alla ricerca dell'uomo o dei suoi parenti. Ecco la loro storia
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Sackisch Kudowa, Polonia, tra il 1944 e il 1945. In un luogo che non esiste più, una voce intona le note di un’opera classica. Vibrano tra le valli e i massicci, i fraseggi di un giovane vestito di stracci. Gli pendono addosso, come fosse fatto di vento. Nessuno fiata, la paura è un puntino all'orizzonte, la morte si raccoglie da parte. Il ragazzo si chiama Vincenzo, arriva dalla Calabria, quasi un altro mondo. Finisce la sua canzone spegnendo l'ultima nota senza fretta, applaudono i prigionieri, le detenute, i soldati con le divise rigide e le mascelle dure. Sono pochi minuti che sanno di libertà, umanità ritrovata, di felicità sparpagliata tra la polvere e il sangue. Bastano a fare scorta di coraggio quelle due gocce d’acqua fresca su un labbro secco, zucchero su un mattino freddo, di lavoro, di una vita che forse finirà quel giorno lì ginocchioni su un cumulo di terra, pensando all’amore lasciato, prima che il colpo parta dalla canna e arrivi fra i pensieri.
Gli anni della prigionia
Il freddo morde la pelle scoperta dei prigionieri. La fame fa quasi più paura dei fucili dei soldati nazisti, puntati alle teste che sciamano verso la fabbrica, ogni giorno, per uscirne a sera tardi. Tre chilometri a piedi, nella neve, quando l’inverno fa capire chi comanda. Sfilano in una processione muta e zoppa, russi, francesi, olandesi, italiani, e le “ragazze ebree” – così le chiamavano per brevità – che curvano verso le loro baracche, cinte dal filo spinato, all’interno del Frauen Arbeits Lager, che chiamano casa. Molte di loro arrivano da Auschwitz, sopravvissute chiamate a sopravvivere ancora e ancora.
La testimonianza di Luigi Baldan
Nella Vereinigte Deutsche Metallwerke Luftfahrtwerke A.G., si fabbricavano i pezzi dei monomotore Messerschmitt, cacciabombardieri, ricognitori, pezzi da Novanta dell’aviazione tedesca. Luigi Baldan è una delle tante mani che si muovono sui rulli meccanici. Nella sua vita di prima era soldato della Marina Regia, prima che alle 19:42 dell'8 settembre 1943, dai microfoni dell’Eiar, il maresciallo Badoglio annunciasse che l’Italia s’era arresa, firmando l’armistizio con le forze anglo-americane. Il caos che seguì, la fuga del re e le truppe lasciate senza direzione e ordini, confuse sulle false voci della fine di una guerra che ancora divampava, portarono alla cattura di più di 800mila soldati italiani, caduti nella rete dei nazisti.
Una voce senza volto
Tra loro Luigi Baldan, da Sambruson di Dolo, Veneto, nella sua vita di prima caposquadra manutenzioni di Venezia Marghera. Tra loro Vincenzo, da Cosenza, Calabria. Di lui si sa quasi niente, non c’è una foto che lo ritragga, o un cognome che lo identifichi, eppure la sua memoria oggi è viva e forte, trasportata come fa il vento con gli odori buoni, lontanissimo. Di Vincenzo, uomo del Sud di quell’Italia confusa e divisa, conosciamo solo il suo nome di battesimo e la sua voce dolcissima che superava il filo spinato dei campi e alleggeriva lo spirito dei suoi compagni di prigionia piegati dalla fame e dalla paura. Spesso duettava con una ragazza ebrea, di cui invece s’è perso anche il nome, ma non il ricordo. In Polonia, a Kudowa, a ottobre verrà scoperto un monumento dedicato a tutti i prigionieri, anche agli sconosciuti che con la musica portarono la vita dove la morte era di casa.
L'appello di Sandro Baldan: «Aiutatemi a trovare Vincenzo»
La storia di quest’uomo, Vincenzo, esiste solo tra le pagine di un diario gualcito, diventato poi un libro che Luigi Baldan, diede alle stampe prima di morire nel 2017, a novantanove anni. Suo figlio Sandro, ne ha raccolto il testimone, e da molti anni racconta la storia di suo padre che osò sfidare l’arroganza nazista, aiutando come poteva le operaie ebree e boicottando, in segreto la fabbricazione dei pezzi militari e intessendo una rete sotterranea di aiuti e supporto tra prigionieri. La paura non appannò mai il coraggio, tanto che Baldan mai cedette alle lusinghe dei tedeschi che promettevano di risparmiarlo se si fosse piegato a collaborare con loro. «Vorrei tanto trovare Vincenzo o i suoi familiari - ci dice Sandro Baldan al telefono -. Mio padre racconta nel suo diario di questo ragazzo cosentino che aveva questa voce bellissima e che intonava le arie dell'opera addolcendo quei mesi tragici e bui. Da anni cerco di raccontare e tramandare le memorie di mio padre - racconta - perché il suo è stato un esempio di grande coraggio e di un'umanità straordinaria. Il bene porta bene, e ne abbiamo così bisogno».
Una lotta per la sopravvivenza
Ogni giorno i fucili svegliavano la piccola comunità operaia e le preghiere che salivano al cielo, era che rimanessero muti fino a notte. Alle ragazze ebree, coperte di pochi stracci e lasciate a lavorare e vivere, avvolte da divise consunte e sottili, Baldan provvedeva come meglio poteva: rubava tozzi di pane e li avvolgeva in un panno che finiva nei loro carrelli, o scampoli di lana perché vi si avvolgessero, una volta riuscì a trafugare anche una porzione di gnocchi e a consegnarla, calda e avvolta in una ciotola, nella carriola della giovane Edith che la conservò, stringendola al petto. Nel suo libro di memorie “Lotta per sopravvivere. La mia Resistenza non armata contro il nazifascismo” (Cafoscarina) racconta dei mesi infernali condivisi con i suoi compagni di prigionia e della crudeltà dei soldati nazisti che non esitavano a punire crudelmente chiunque non obbedisse agli ordini. Baldan riesce a fuggire in Cecoslovacchia riuscendo a tornare nella sua Italia. Della sua Resistenza pacifica restano tracce importanti. Fino alla fine non si stancò mai di raccontare, soprattutto ai più giovani la sua storia e quella delle persone che erano diventate la sua famiglia. Perché anche nel peggior posto del mondo la vita vince sempre.