Alla fine, l’esperimento sociale c’è stato davvero, anche se il prezzo pagato è sicuramente troppo alto. La storia del bambino di colore di 10 anni, costretto da un maestro a dare le spalle alla classe perché “troppo brutto”, consente molte riflessioni, alcune delle quali estremamente confortanti nonostante le pessime premesse.
I fatti sono noti. In una scuola elementare di Foligno, un bambino di origine nigeriana, l’unico della classe, è stato costretto dall’insegnante dell’ora alternativa (quella per chi sceglie di non frequentare l’ora di religione), un docente laureato in antropologia, a guardare fuori dalla finestra dando le spalle alla classe.
«Ma quanto è brutto! Bambini, non trovate anche voi che sia brutto? Stai fermo lì e non ti girare, non ti voglio guardare». Inverosimile sembra la giustificazione del maestro, che ha ammesso di aver sbagliato ma sarebbe stato mosso dalla volontà di mettere in atto un esperimento sociale. «Stavamo affrontando la Shoah - ha spiegato, intervistato da Bruno Vespa a Porta a Porta - e volevo provocare una reazione di rigetto verso le discriminazioni, dimostrare che è sbagliato emarginare». Se anche fosse vero, niente può giustificare l’umiliazione inferta al bambino. Ma ora che l'episodio si è comunque consumato, i risultati possono essere analizzati, senza che ciò possa apparire come una giustificazione a un comportamento, quello del docente, che resta inqualificabile.

 

A raccogliere la testimonianza del bimbo è stato il Corriere della Sera: «Ero lì da solo davanti alla finestra e non riuscivo a capire il perché, il tempo passava e non cambiava nulla».
È a questo punto che “l’esperimento” ha funzionato davvero: i compagni del bimbo, tutti bianchi e tutti coetanei, si sono alzati e si sono ribellati a quella che hanno identificato senza ombra di dubbio come un‘ingiustizia intollerabile. A raccontarlo è stato lo stesso alunno di colore: «Ragazzini e ragazzine, tutti con la pelle bianca, si sono alzati e sono venuti vicino a me, si sono messi lì alla finestra e hanno detto al maestro: noi siamo uguali, noi siamo come lui, perciò anche noi ora stiamo qui, fermi, a vedere il mondo là fuori».


Quello stesso mondo che vede pericolosi rigurgiti di razzismo, che assiste a nuovi e per questo anche più inquietanti episodi di antisemitismo, che coltiva rabbiosi nazionalismi che tornano a ringhiare come non avevano mai fatto negli ultimi 70 anni. Quel mondo che minaccia di tornare sui passi della storia, è rimasto fuori da quella classe. Dentro, tra i banchi, gli zaini e un maestro che non si capiva bene dove volesse andare a parare, c’era un altro mondo pronto ad esigere giustizia e uguaglianza, rispetto ed equità.

 

Quelle rivendicazioni mosse dal coraggio di pochi bambini che hanno avuto la forza di opporsi alla massima autorità di quel piccolo microcosmo sociale, il maestro appunto, sono poi dilagate all’esterno. I genitori dei ragazzi, compatti, hanno protestato e condannato senza riserve l’episodio, esprimendo solidarietà alla famiglia del piccolo. Allo stesso modo, sui social, che sempre più spesso assomigliano a sabbie mobili d’odio, dove tutto affonda senza possibilità di scampo, stavolta l’indignazione è stata unanime.

 

Ovvio, si dirà, chi avrebbe mai potuto avallare il comportamento del maestro, a prescindere dalle sue sballate motivazioni didattiche. Eppure questo è un Paese dove in tanti hanno minimizzato a suo tempo le parole di Roberto Calderoli, che nel 2013, durante la festa della Lega Nord di Treviglio, definì un orango l'ex ministro del governo Letta, Cecile Kyenge. Per quelle parole, Calderoli è stato condannato in primo grado, il 14 gennaio scorso, a un anno e sei mesi.

 

Dunque, la reazione ai fatti di Foligno era meno scontata di quanto si potesse sperare. Ma c’è stata. “L’esperimento sociale” ha funzionato nonostante tutto e ha dimostrato che gli anticorpi contro il razzismo ci sono. Anche se hanno avuto bisogno di un bambino e dei suoi compagni per rafforzare le nostre difese immunitarie.