VIDEO | Il presidente dell'associazione che a Corigliano Rossano gestisce il centro antiviolenza intitolato a Fabiana Luzzi indaga il fenomeno in un libro, frutto di una ricerca tra numeri e storie: «In Italia manca una vera banca dati e anche lo stesso termine ancora non ha un'interpretazione univoca»
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Antonio Gioiello si occupa di violenza sulle donne da anni. Psicologo e psicoterapeuta, a Corigliano Rossano guida l’associazione Mondiversi, che tra le altre cose gestisce il centro antiviolenza intitolato a Fabiana Luzzi, accoltellata e bruciata viva dal suo fidanzato nel 2013, a soli 16 anni. Dalla sua esperienza e dalla necessità di andare a fondo di un fenomeno ancora non sufficientemente indagato e compreso è nato “Il femmincidio in Italia” (Armando editore), un libro frutto di una ricerca attraverso i dati e i fatti degli anni compresi tra il 2018 e il 2022, attraverso i numeri e le storie che vi si celano dietro. “Cinque anni all’inferno” è il sottotitolo, cinque anni nell’orrore di vite piegate e spezzate. E, spesso, dimenticate.
Qual è il quadro generale che emerge?
«In Italia manca una vera banca dati, che rappresenta il punto di partenza per occuparsi del fenomeno in modo scientifico. I dati che abbiamo, come quelli dell’Istat o del ministero, non riguardano propriamente i femminicidi ma generalmente gli omicidi che hanno come vittime delle donne».
Qual è la differenza?
«Il femminicidio non riguarda il fatto che siano uccise delle donne ma che siano uccise delle donne per motivi di genere».
Nel libro lei parte da una disamina del termine femminicidio, evidenziando come manchi ancora un’interpretazione univoca. È solo una questione linguistica o ci sono ricadute nel concreto?
«Ci sono ricadute perché gli interventi effettivi, sia in termini di prevenzione sia dopo che il fatto è accaduto, non sono orientati verso quello che è davvero il fenomeno. Anche le indagini vengono fatte sulla base delle norme del Codice penale e siccome nel Codice penale esiste solo il reato di omicidio le motivazioni di genere sono assolutamente trascurate. Nei dati che ho esaminato nella gran parte dei casi è riportato che le donne vengono uccise per liti o futili motivi. Così non si riesce ad avere un’idea della dimensione del fenomeno».
In Europa, scrive, il femminicidio è slegato dalle diverse forme di violenza sulle donne. Questo come si traduce nei fatti?
«Il femminicidio è l’espressione estrema della violenza dell’uomo sulla donna. Il che non significa che a condurre alla morte una donna debba essere necessariamente l’uccisione volontaria, la morte può anche essere l’esito di una serie di sopraffazioni. Ho letto per esempio del caso di una donna morta in ospedale dopo due mesi di agonia a causa delle botte del suo compagno, che naturalmente non è stato accusato di omicidio ma solo di maltrattamenti. Qualcuna viene indotta al suicidio dalle violenze subite. Questi sono femminicidi».
È per questo che il reato di omicidio non basta e si chiede l’inserimento nel Codice penale di quello di femminicidio?
«Il fenomeno del femminicidio è molto più ampio. Inserire il reato di femminicidio, che quindi prende in considerazione una serie di condizioni che ne sono all’origine, può essere d’aiuto a livello di attività di sostegno e prevenzione delle violenze ma anche nell’orientare le indagini sui casi di omicidio».
Nel libro cita due casi, che sono omicidi di ‘ndrangheta: quello di Lea Garofalo e quello di Maria Chindamo. Perché anche questi sono femminicidi?
«Le due vittime avevano modi di comportarsi e stili di vita che non rientrano nei canoni della cultura mafiosa, dove la donna è relegata alla subalternità, al di là di alcune situazioni particolari in cui si trova a ricoprire ruoli apicali. Cito loro perché sono calabresi e sono casi recenti, ma esempi ce ne sarebbero tanti di donne considerate troppo emancipate, che avevano preso le distanze dal sistema mafioso e che, anche perché donne, sono state uccise».
Lei ha passato in rassegna anche il racconto fatto dai canali d’informazione. Come lo giudica?
«Spesso i giornali si limitano a riportare le veline delle forze dell’ordine che danno conto del fatto nell’imminenza e non vanno a indagare il contesto in cui il delitto è maturato. Magari oggi si scrive femminicidio anziché omicidio, a volte anche quando femminicidio non è. Leggevo per esempio di una donna uccisa durante una rapina: quello non è femminicidio. Anche questo non contribuisce a costruire una lettura sociale e culturale del fenomeno».
Esiste un profilo del femminicida?
«Sicuramente ci sono delle caratteristiche individuali che possono rendere più propensi ma non dobbiamo dimenticare che il fondamento della violenza di genere è nel sistema culturale. Poi, certo, esistono degli indicatori caratteriali. Uno è l’incapacità di gestire la sofferenza della separazione ed è un aspetto da tenere molto in considerazione, soprattutto per le nuove generazioni che hanno a che fare con rapporti di coppia molto più instabili di un tempo. L’altro riguarda chi non riesce a vivere in relazioni paritarie ma ha bisogno di avere una posizione di predominio. Oppure ancora la pulsione al possesso. Ma tutti questi comportamenti si sviluppano comunque all’interno di un contesto culturale del quale si nutrono».
I cosiddetti campanelli d’allarme ci sono sempre o il raptus, lo scoppio d’ira di cui spesso si sente parlare esistono?
«Non esistono. C’è sempre un motivo più profondo e maturato nel tempo. In più del 90% dei casi che ho esaminato c’era una separazione in atto, o c’erano stati dei maltrattamenti. L’altro movente molto diffuso è la violenza sessuale, dove l’omicidio spesso scaturisce da una resistenza della donna».
Le lacune riguardano anche la giustizia, secondo lei. Scrive infatti che «a volte perde di vista la vita delle persone e si riduce a puro tecnicismo». Che intende?
«Si perde di vista tutto ciò che ha portato all’esito fatale. Anche la giustizia, proprio perché si rifà al reato di omicidio, non è sempre portata ad approfondire il contesto che c’è alle spalle. Nei processi spesso vengono fuori degli elementi banali, tant’è che si parla di futili motivi. Come se tutto avvenisse solo in quel momento in cui il peggio accade, ma quello è solo l’atto finale di un meccanismo che si è messo in moto molto prima».
A livello calabrese quanto c’è da fare?
«Il 21 novembre sono stati convocati gli stati generali con gli osservatori sulla violenza di genere per fare il punto della situazione. Questo è un dato positivo. Per il resto, la Calabria ha un indice di femminicidio superiore alla media italiana. La normativa regionale è una normativa vecchia, risalente al 2007, che necessita di essere aggiornata: serve una legge quadro che preveda interventi che vadano dalla prevenzione primaria passando per la tutela e la protezione delle donne vittime di violenza fino al sostegno per i percorsi di autonomia e indipendenza. Ci sono i centri antiviolenza e le case rifugio, per fortuna, ma non è abbastanza».