Comandante amato e fine stratega, non cadde in battaglia ma fu fucilato dai compagni di lotta. Eppure mai fu né traditore né ladro
Tutti gli articoli di Attualità
PHOTO
«È una figura esemplare per la forza dei suoi principi e per la volontà di perseguirne l’attuazione al punto da sacrificare la propria viita». Il cultore della Storia della Resistenza e giornalista che vive tra il Piemonte e la Calabria, Pino Ippolito Armino, descrive così l’attualità di Dante Castellucci, giovane partigiano, nome di battaglia Facio.
Nato a Sant'Agata di Esaro nel Cosentino nel 1920, Dante Castellucci fu fucilato dai compagni di lotta ad Adelano, a Massa Carrara in alta Lunigiana, nel luglio del 1944. Dall’analisi di nuovi documenti relativi alle vicende che portarono alla sua esecuzione, trae ispirazione il suo libro “Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio”, presentato in prima nazionale a Reggio Calabria presso lo spazio Open, alcune settimane fa, su impulso della sezione Ruggero Condò dell’Anpi reggina.
«È stato un grande comandante partigiano che ha vissuto assieme ai Cervi come un pari, dunque uno degli iniziatori della Resistenza nel reggiano. Il suo valore - sottolinea Pino Ippolito Armino - si afferma nella storica battaglia del Lago Santo, dove riuscì a tenere testa a 150 militi tra fascisti e tedeschi, riuscendo a mettere in salvo i suoi otto uomini», evidenzia Pino Ippolito Armino.
Pino Ippolito Armino è ingegnere e giornalista. Cultore di storia del Risorgimento e della Resistenza, è membro dell'Istituto «Ugo Arcuri» per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea. Collabora con il quotidiano «il manifesto» e con il settimanale «Left».
Pioniere della Resistenza
Facio fu protagonista degli albori dell’azione partigiana, quella avviata prima dell’armistizio dell’8 settembre e dell’occupazione tedesca, addirittura prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943. Prova ne è l’assalto, il 22 giugno 1943, con i suoi compagni al poligono militare di Guastalla per impossessarsi di armi e munizioni. Comandante partigiano del Battaglione Picelli, attivo in Lunigiana sull’Appennino tra La Spezia e Parma, Facio venne fucilato dai suoi compagni dopo un sommario processo.
Il 27 aprile 1962, per decreto del presidente Giovanni Gronchi, gli è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, in quanto «scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto ed avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto». Ma così non fu. Egli non cadde in battaglia, per mano nemica, seppure avesse rischiato sempre la vita. Egli fu fucilato dai compagni lotta. Eppure mai fu né traditore né ladro.
Le passioni e il coraggio
Amava i fichi d’India della sua terra di origine, la Calabria. Ne parlava con i suoi amici. Suonava il violino, scriveva poesie, disegnava e amava il teatro Dante Castellucci. Raggiunto dalla chiamata alle armi, all’età di vent’anni, fu destinato al fronte alpino dove divenne amico di Otello Sarzi, diciottenne militante antifascista e componente della nota famiglia di attori e burattinai. Spedito a combattere in Russia, rientrò ferito. Durante la convalescenza, raggiunse Otello Sarzi ed entrò a far parte della famiglia e della compagnia teatrale. E intanto proseguiva la sua attività antifascista.
Quindi l’altro incontro decisivo fu con la famiglia di Alcide Cervi con i suoi sette figli, nella cascina ai Campi Rossi nel Comune di Gattatico. Intanto la resistenza era iniziata. Dante si trasferì in casa Cervi. Arrestato assieme a loro alla fine del ’43, riuscì a fuggire e a sottrarsi alla fucilazione. Complice fu la sua conoscenza della lingua francese, appresa quando da giovanissimo si era dovuto trasferire in Francia con la famiglia.
Accusato, senza prove, di tradimento, si spostò poi sull’Appennino, dove la fama iniziava a precederlo. Facio si distinse per lealtà, coraggio e capacità e alcune sue azioni contro i nazifascisti diventarono leggendarie fra i partigiani della Brigata Guido Picelli. Di questo nel 1944, alla morte di Alberto cioè Fermo Ognibene, diventò comandante. Aveva solo 24 anni. La Brigata si insediò nell'Alta Lunigiana e fu la stessa brigata in cui andò a combattere Laura Seghettini, la sua compagna.
Il ritorno in Calabria
«A Sant'Agata, il piccolo centro del Cosentino posto su una rupe che domina la vallata del fiume Esaro, la notizia della morte di Dante Castellucci giunge a fine guerra. La porta nell'estate del 1945 una lettera della sua compagna, Laura Seghettini, affidata al reduce santagatese Alfredo Rondinella. Per Pontremoli, storico centro della Lunigiana, dove Dante è stato seppellito, parte subito la madre, Maria Concetta Arcuri, poco più che cinquantenne; più tardi vi si reca anche Francesco, il padre, quattro anni più vecchio della moglie. Vengono entrambi da famiglie di piccoli agricoltori. Si sono sposati nel 1919 e il 6 agosto dell'anno successivo è nato il primo figlio, Dante, l'anno dopo Clementina». Inizia così, quindi inizia dalla fine, il libro di Pino Ippolito Armino. Poi a ritroso ricostruisce la vita e la morte di Dante Castellucci, nome di battaglia Facio.
L’indagine sulla morte di Pino Ippolito Armino
Comandante amato e fine stratega, Facio, che nel nome racchiudeva la sua capacità di “fare” il suo destino e non di subirlo, di incidere sulla Storia e non di assistervi, morì poco più che ventenne dinnanzi al plotone d’esecuzione partigiano, al quale si consegnò da innocente, senza scappare.
«Oggi sulla base delle informazioni, delle fonti e delle ultime testimonianze che siamo stati in grado di raccogliere, la verità sul comandante Facio pare abbastanza definita. Naturalmente la storia è sempre fatta di continue revisioni purché siano fondate su fatti, nuovi testi e documenti che possano correggere quanto sia stato precedentemente scritto. Io ho avuto la possibilità di approfondire i documenti del cosiddetto processo e soprattutto di incontrare alcune persone che nella vita di Dante sono stati dei protagonisti. Dante è stato ucciso per un complesso di ragioni tra le quali c’è sicuramente l’invidia che veniva provata verso questo giovane meridionale, calabrese che era riuscito ad avere un ruolo così importante nella guerra di Resistenza. Questa è, certamente, una parte della verità», conclude Pino Ippolito Armino.