Rita De Crescenzo, altrimenti conosciuta come la trucidona napoletana del web in grado di moltiplicare pullman e tre ruote, minaccia un suo diretto coinvolgimento in politica. Si avvarrà, a quanto pare, della consulenza di Maria Rosaria Boccia, nota ai più per l’affaire Sangiuliano. Dal Vicolo Pallonetto di Santalucia a Montecitorio, o meglio, a Montecicoria, il passo è breve. Nulla di nuovo, in realtà: solo la rimodulazione grottesca dell’Uomo qualunque al potere, le cui origini storiche risalgono al dopoguerra e, nella specie, all’intuizione di Guglielmo Giannini.

La novità, semmai, riguarda le procedure di Internet. Da quando la sfera pubblica si è sbriciolata negli addensamenti emotivi delle piattaforme virtuali, sono gli stessi followers a designare il capopolo di turno. Nel caso della De Crescenzo, però, l’effetto è così struggente da restituirti il vezzo crepuscolare della nostalgia, al solo pensiero delle Frattocchie togliattiane o della Scuola democrista della Camilluccia. In men che non si dica, scopri che l'ultimo brivido d’intelletto del postmoderno coincide con le spalline imbottite degli Spandau Ballet. Dopo di che, con sprezzo del pericolo, provi a tenere a bada l'eco remota di falò accerchiati da “zingari felici”, mentre il mangiadischi ha già ingurgitato te, l'eresia di Piccola Katy e il vecchio poster di Ho Chi Minh. Ti sorprendi avvinta alle iperboliche “convergenze parallele” di Aldo Moro o rapita dal magnifico bagliore della notte craxiana di Sigonella. È evidente, a questo punto, che stai mobilitando tutti i tuoi anticorpi per non finire nella brodaglia della tecnomagia.

Per resistere alla panzana più clamorosa dei nostri giorni: l'Innocenza dei parvenus a dispetto della colpa primigenia e inestinguibile di ogni Partito Padre. Se ti ricordi, poi, di essere stata una ragazzaccia di Lotta Continua, hai come il sospetto che la memoria storica chieda di riemergere dagli anfratti del passato per fare quattro chiacchiere. Con chi? Con questo tempo rigoglioso di orfananze politiche e di oppiacei. Con i chierici della pretesa castità del “cittadino”, ancorché incompetente. Con i sicari di Platone e della scienza regia. Con i cantori della incuria dello scibile intorno alle cose della Politica, che, invece, si fa arte solo se è raccordo tra Saperi, sguardo d'orizzonte. Visione. Capacità di sintesi suprema. Passione utopica e, al tempo stesso, Ragione che organizza il sogno.
Ecco, se la nouvelle vague del web è abiura di ogni storia, sterminio delle appartenenze, tumefazione degli dèi, sento urgere in me la pulsione primitiva di mettere in salvo dalla piena un pezzetto di orgoglioso background e di biografia politica. Volente o nolente, ne reco le stimmate. Con euforico tormento. E quella mia generazione, che si ubriacava “di luna, di vendetta e di guerra” e di “due anime ed un sesso di ramo duro in cuore”, un qualche sedimento, al netto di tutti i revisionismi del caso, lo rivendica ancora. Certo, parliamo di un mondo archeologico, di sinistre extraparlamentari, di anni '70.

All'epoca, se sfottevi un celerino si profilava l’incidente probatorio. C'era Kossiga agli Interni e Giorgiana Masi ad imbrattarsi di sangue e di bombolette indiane metropolitane nel centro di Bologna. Eravamo di una cattiveria lirica. Assai poco terroristica. L'unica clandestinità che passava il convento era quella intrattenuta con i “Fiori rosa e di pesco” di Lucio.

Occupammo binari, strade, autostrade. Disoccupammo le strade dai sogni. Era un altro tempo. Delle visioni del mondo contrapposte: internazionalismo e patriottismo collidevano fragorosamente. E l'internazionalismo non somigliava affatto al globalismo di questa nostra feroce attualità. La febbricitante, simultanea irruzione di milioni di antagonismi in tutto il mondo negava l'Individuo-Nazione.
La tradizione comunitaria e di famiglia era resistita dall'insorgere di un sentimento planetario che interrompeva il quieto incedere delle consuetudini. Ci si scontrava sulla destinazione di senso delle nostre vite. Il “Dopoguerra” non lo si percepiva ancora come paleolitico ed il mondo, diviso in blocchi, nelle due aree di influenza, si configurava come una contiguità temporale. Era un tempo identitario. Fortemente identitario. Stellarmente distante dai giorni che viviamo e che vedono definitivamente esalate le Categorie del Novecento, già ingracilite, secondo il sociologo Michel Maffessoli, dall’edonismo orgiastico degli anni ‘80.
Cionondimeno, pur se flebilmente, in chi non vuole e non può dirsi orfano di ogni trascorso, qualcosa sopravvive. E non è un peccato di cui pentirsi davanti agli altari di TikTok, che ci vorrebbero incontaminati da ogni sapere.

Cosicché la sublime ignoranza della trucidona di turno diventi condizione essenziale per ascendere a Montecicoria. Roba al cui confronto l’Uno vale Uno di ispirazione grillina rischia la reputazione di un saggio di Benjamin Franklin.

Intanto, De Crescenzo mobilita pulsioni e pullman per Roccaraso e per Pechino. Miete consensi. Attizza il “popolo”. Con buona pace di Platone, di Von Bismarck e di Ciriaco De Mita.