di Cinzia Pennati*

Pizzo Calabro. Lui e lei si sono sposati.
Lei è bionda biondissima, una calabrese doc, a parte i capelli, appunto. Conosce tutti i dialetti di qui, come ci fosse nata.
Perché lei era una di quelle bambine che venivano in Italia due volte all’anno in estate e a Natale, attraverso un progetto di accoglienza di gruppi di bambini orfani di Chernobyl.
Viene dalla Bielorussia e la prima volta che è arrivata aveva sette anni.
Ha vissuto quasi sempre in Istituto laggiù e qui, nella nostra Calabria, ha trovato un padre e una madre.
Loro hanno provato con ostinazione ad adottarla, sono persino andati in Russia un paio di volte ma non ci sono mai riusciti.
Così l’hanno aspettata, mandavano pacchi, ogni estate e ogni inverno si facevano casa. Erano madre e padre a distanza. Lei era figlia.
A diciott’anni le hanno pagato il biglietto aereo e arrivata in Italia l’hanno adottata.
Ieri lei si è sposata. Ha fatto un ballo lungo con suo padre e se lo baciava di continuo. Sua madre era lì, una presenza solida.
Ho pensato alle seconde possibilità, a quelle che dovremmo avere tutti.
Tutti dovremmo poter essere madri e padri, anche se non lo siamo di “sangue” e dovremmo poter essere figli di qualcuno.
Perché essere madre e padre prevede la gratuità dell’amore, ed è quella che attraversa in pieno la genitorialità.
Amo te figlio mio, anche se i miei occhi non sono i tuoi, se non ti ho portato nella pancia, se non so niente di te, se hai attraversato il mare nelle braccia della tua vera madre, se vivi in un altro luogo, amo te figlio mio ed imparo a conoscerti per ciò che sei.
Così, mentre entrava in chiesa, questa ragazza con gli occhi color del mare, abbracciata a un uomo che era suo padre sul serio, mentre dalla prima panca sua madre la guardava percorrere la navata e sapeva che quella era sua figlia, ho pensato che è semplice l’amore.
Che l’essere fertili non c’entra con il corpo ma è una scelta di vita, aprire il cuore all’altro, prenderlo con sé e dire: ci proverò.
Proverò a volerti bene. Proverò a farmi culla. A darti una seconda possibilità. Sarò terra, ponte, luogo di adozione.
E, allora, ieri a quel matrimonio non si vedeva o sentiva nessun: io vengo prima di te. Tutti parlavano la stessa lingua, pur venendo da luoghi diversi, pur avendo storie diverse. E nessuno chiedeva: perché sei qui? O rivendicava il suo posto: stai a casa tua.
C’era un’unica cosa che contava. Io sono tua madre, io sono tuo padre e tu sei nostra figlia.
Figlia del mondo.
Perché la famiglia è una. Quella umana.
L’amore è uno. Quello capace di divenire fertile. Come un atto di adozione.
Siamo madri o padri al di là del concepimento. Oppure non lo siamo. Non ci sono storie. E, ieri, c’erano gli occhi, solo gli occhi di chi si vuole bene e sa di appartenersi.
Ogni persona ha diritto di essere figlio. E non importa chi sia e da dove venga. Importa che trovi lo spazio per essere amato.
E niente: ho pianto.

*scrittrice, autrice del libro Il matrimonio di mia sorella (Giunti Editore)