Ero un maschiaccio, da bambina. A pensarci adesso mi faccio tenerezza, convinta come ero che bastasse nascondere la mia femminilità per essere accettata in un mondo al quale non appartenevo. Quello maschile. I giochi che mi piacevano più non erano per le bambine; persino ad educazione fisica c’era un netto distinguo tra il vigoroso allenamento prepartita – che poi si trattasse di basket, calcio o altro poco importava – e il dolce allenamento di aspiranti farfalle da ginnastica artistica, tutto clavette, nastri e palle colorate.

Quando sono entrata nel mondo del lavoro, in cui si intersecavano il giornalismo e la politica, portare la cravatta è stato il mio modo per annullare ancora il mio appartenere al genere sbagliato, quello che non poteva avere accesso a quel mondo se non nel ruolo di segretaria. O di amante. O di entrambe le cose insieme.

Senza scomodare la letteratura alta, in cui grandi donne hanno dovuto fingere di essere uomini per poter studiare ed avere un ruolo sociale al di fuori dei fornelli, se ripercorro il mio rifiuto per tutto ciò che era rigorosamente “da femmina” e il mio tentativo di “fare cose da maschi”, mi ritrovo nei racconti della maggior parte delle donne che conosco e frequento.

Sorelle rifiutate da un mondo con la giacca e la cravatta. Abituate a camuffarci per poter accedere a spazi e ruoli che altrimenti non potremmo avere. Non è una questione di generazione: è una questione di autodifesa, è il tentativo di uniformarsi ad una società così rigorosamente maschile, così intrisa di stereotipi e di diseguaglianze.

Ci sarà una ragione se i Paesi socialmente e culturalmente più arretrati sono quelli che ancora mettono il velo alle donne, negando loro istruzione e crescita, relegandole al ruolo di procreatrici/sfamatrici di ogni tipo di appetito. E ci sarà una ragione se anche questo 25 novembre ci prepariamo a celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne con una tristezza di fondo. Perché sarebbe bello un mondo in cui le differenze sono un valore, capace di generare progresso e non diseguaglianze. Sarebbe bello non dover parlare ancora di scarpette rosse, di femminicidi, di nomi che si aggiungono alla lista inesauribile delle donne che hanno subìto e continuano a subire, nella vita pubblica come in quella privata, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, o anche solo minacce, o privazione arbitraria della libertà.

E invece siamo ancora qui, apparentemente impotenti, un anno dopo. Ancora.

Ma qualcosa è cambiato, almeno nella nostra grande famiglia, in cui uomini e donne da anni lavorano e crescono fianco a fianco, consapevoli del fatto che le differenze – e non solo quelle di genere – sono la nostra forza. Noi ci siamo. Noi siamo contro i cliché e gli stereotipi che vorrebbero noi donne zitte, obbedienti, sottomesse. Ci siamo, e non potremmo che esserci. La nostra mano tesa per rispondere con l’amore alla violenza. Di qualunque natura sia.

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