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martedì 18 giugno 2024 | 18:40
Opinioni

L’analisi - La Corte costituzionale decide in tema di fine vita per squarciare il silenzio del legislatore - Notizie

La Consulta sarà chiamata a pronunciarsi nuovamente su una questione che la politica non ha il coraggio e la voglia di affrontare. Un vuoto normativo che relega nel limbo dell’incertezza diritti fondamentali

di Ugo Adamo*

Da qualche settimana sappiamo che il Governo disciplinando il PNRR ha stabilito di far rientrare nella competenza di tale Piano persino la materia dei consultori e delle interruzioni di gravidanza: la lotta contro l’aborto non è motivata dal ‘bene’ delle donne, ma è vista come un mezzo per favorire la crescita demografica e, quindi, lo sviluppo socio-economico del Paese (primo sic!). La maggioranza di Governo, infatti, sta intervenendo normativamente per infondere il senso di colpa (è difficile scorgere altre ragioni nella presenza di associazioni contro l’aborto in luoghi dove si va per praticarlo) a chi decide di praticare uno spazio di libertà entrando in un consultorio per interrompere in modo volontario la gravidanza.

Nessuno ha chiesto a gran voce l’introduzione di tali misure e tuttavia l’esercizio della discrezionalità politica lo permette. È la stessa discrezionalità che ha indotto il Governo a presentare un ricorso al TAR per fare annullare una delibera del Presidente della Regione Emilia-Romagna che interveniva amministrativamente in uno spazio normativo lasciato libero, stante ancora l’assenza di una legge che dia seguito a quella pronuncia della Corte costituzionale (correva l’anno 2019) che ha riconosciuto una dimensione di libertà nelle decisioni di fine vita. Il Governo anziché fare preferisce ricorrere contro chi fa (secondo sic!).

Gli esempi di latitanza da parte del Parlamento, pur a seguito di precisi moniti del giudice delle leggi, sono altri e molteplici e sono stati di recente richiamati anche dal Presidente della Corte costituzionale: tra gli altri, il mancato seguito alle sentenze sul doppio cognome e sulla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso. Fra tutte le materie volutamente non prese in considerazione, quella maggiormente ignorata – anche solo per una questione di allarmante ritardo – riguarda il fine vita.E allora, davanti all’immobilismo, alcuni hanno deciso di disobbedire.

Proprio grazie alla disobbedienza civile si è dato il via a un iter giudiziario che ha fatto sì che sull’aiuto al suicidio sia intervenuta, in due occasioni, la Corte costituzionale: con la prima decisione (2018) ha cercato una leale collaborazione con il Parlamento, che, però, ha ‘risposto’ con un silenzio insofferente che ha riattivato il giudizio della Corte costituzionale, portando alla sentenza n. 242/2019. Con tale ultima pronuncia è stato dichiarato incostituzionale il divieto assoluto dell’aiuto al suicidio, il che significa che non è più punibile chi agevola il suicidio di chi, affetto da una patologia irreversibile e oppresso da sofferenze psico-fisiche che ritiene insopportabili, rimane comunque capace di esprimere un libero consenso. A queste tre condizioni, si aggiunge quella per la quale la persona sopravvive esclusivamente grazie a trattamenti di sostegno vitale.

Sull’occorrenza di quest’ultimo requisito, il tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla sua ragionevolezza. Il giudice fiorentino si è rivolto alla Corte perché, dopo la sentenza del 2019, il Parlamento non ha affrontato la questione e ha continuato a tacere, ignorando il problema della parzialità della decisione del giudice costituzionale che non copre la richiesta di morte dignitosa di coloro che, pur affetti da una patologia irreversibile che causa sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e pur restando capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, non sono tenuti in vita mediante trattamenti di sostegno vitale.

Il Parlamento non ha dato seguito neanche alla decisione della Corte riguardante la procedura da seguire per richiedere il trattamento di aiuto al suicidio: non ha stabilito nulla circa le modalità di esecuzione del trattamento e su come i requisiti debbano essere verificati da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La conseguenza finora è stata quella dei ricorsi, evidentemente con aggravio economico e soprattutto temporale (di prolungamento delle sofferenze). Nihil novi sub sole. La latitanza è ormai una costante, se si considera che sono passati 5 anni dalla decisione del 2018 e sono trascorsi ben 11 anni da quando è stata presentata una proposta legislativa popolare sull’eutanasia. Un disegno di legge appunto mai discusso.

Dal 2019, la Corte costituzionale ha palesato di aver deciso di intervenire per porre rimedio a un vulnus costituzionale, ma risulta insufficiente consentire l’aiuto al suicidio a coloro che potrebbero comunque porre fine alle proprie sofferenze interrompendo i trattamenti di sostegno vitale che devono essere attivati e richiedendo una sedazione palliativa profonda, così come già permesso dalla legge. Forse la Corte più di questo non poteva fare, a differenza del Parlamento che potrebbe e dovrebbe intervenire nel rispetto del giudicato costituzionale: la tutela bilanciata del principio di autodeterminazione e dei soggetti più vulnerabili. Ma la presenza o meno di un trattamento salvavita, oltre a essere un unicum nei Paesi che hanno legiferato sull’aiuto al suicidio, non contribuisce alla tutela dei soggetti vulnerabili.

L’attesa di una decisione parlamentare conforme al parametro costituzionale non può più protrarsi sine die, soprattutto considerando il monito ulteriore pronunciato (lo scorso 18 marzo) dal Presidente della Corte costituzionale: “a fronte di una eventuale persistente inerzia legislativa, la Corte […] non può tuttavia rinunciare al proprio ruolo di garanzia, che include anche il compito di accertare e dichiarare i diritti fondamentali reclamati da una “coscienza sociale” in costante evoluzione […] auspico [quindi, …] un intervento del legislatore che dia seguito alla sentenza n. 242 del 2019”.

E allora ci si chiede se alla luce del principio di non discriminazione, domani 19 giugno, data di fissazione dell’udienza, la Corte potrebbe non tutelare pienamente il principio di eguaglianza che impone di non discriminare per “condizioni personali” chi richiede aiuto medicalizzato per morire, pur non trovandosi nelle condizioni finora rilevate dalla Corte medesima e quindi indipendentemente dalla presenza di un trattamento salvavita. Di fronte a una malattia incurabile che provoca sofferenze insopportabili, la presenza di un trattamento salvavita non protegge alcun valore, tanto meno costituzionale.

Non prendere in considerazione le ipotesi innanzi descritte significherebbe continuare a non comprendere o a disinteressarsi della sofferenza indicibile di chi soffre in un corpo eretto a carcere, un corpo che è trasformato dalla malattia che lo costringe a un sofferenza senza sosta, se è vero che - come con pregnante efficacia descrive una fra le più grandi esponenti della letteratura contemporanea (Virginia Woolf, Sulla malattia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 9) - il "corpo interviene giorno e notte; si smussa o si affila, si colorisce o scolora […] La creatura che vi sta rinchiusa può solo vedere attraverso il vetro, imbrattato o roseo; non può separarsi dal corpo come il coltello dalla guaina o il seme dal baccello per un solo istante".

*costituzionalista, DESF-UniCal