Nell’osservatorio atmosferico di Monte Curcio si monitora la qualità dell’aria attraverso la rilevazione di gas serra e polveri sottili. Da alcune analisi sono emerse concentrazioni di particolato al di sopra dei limiti: tra i responsabili sembra esserci proprio una "migrazione" dal deserto africano
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Il cambiamento climatico non risparmia nessuno. Neanche un polmone verde come la Sila. Qui sorge ed è attivo dal 2015 l’osservatorio atmosferico di Monte Curcio, 1800 metri di altitudine, un vero e proprio guardiano del clima che dall’alto scruta l’intero territorio: un luogo privilegiato – per la sua lontananza da interferenze antropiche – per studiare anche le più piccole alterazioni dell’aria. Proprio nella stazione silana i ricercatori dell’Istituto sull’inquinamento ambientale del Cnr – che a Rende ha una delle sedi secondarie – hanno osservato un fenomeno che non ci si aspetterebbe in un posto come questo ma che in realtà è tutt’altro che inspiegabile.
Gli studi di Monte Curcio
La stazione di Monte Curcio è una delle oltre cento che fanno parte della rete di monitoraggio del Global Atmosphere Watch, programma dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale che si occupa di valutare lo stato di salute dell’atmosfera attraverso l’acquisizione dei dati provenienti dalle diverse stazioni sparse per il mondo.
È in questo contesto che si muovono i ricercatori di Monte Curcio. Qui lavorano Mariantonia Bencardino, Antonella Tassone e Valentino Mannarino, che della loro attività hanno reso conto in un recente articolo pubblicato sulla rivista online Rinnovabili.it. Nella stazione silana, spiegano, «oltre alle variabili meteorologiche, vengono monitorati i principali gas serra a lungo termine, quali il biossido di carbonio (CO2), il metano (CH4) e il vapore acqueo (H2O), che vanno ad aggiungersi agli inquinanti climalteranti a breve termine, quali l’ozono (O3) ed il black carbon equivalente (eBC), e ad altri gas in tracce, quali gli ossidi di azoto (NOx), il biossido di zolfo (SO2), il monossido di carbonio (CO) e il mercurio gassoso totale (TGM)».
Non solo. Il monitoraggio riguarda anche le cosiddette “polveri sottili” di cui sempre più spesso si sente parlare, «inquinanti atmosferici dalla natura complessa, per composizione, distribuzione dimensionale e molteplicità di sorgenti da cui hanno origine, nonché per la particolare criticità che destano in termini di rispetto dei valori limite stabiliti per la protezione della salute umana», si chiarisce nell’articolo.
Un problema che non ci si aspetterebbe di trovare in piena Sila, a 1800 metri sul livello del mare. Invece, scrivono i tre ricercatori, «esaminando i dati del 2021, per il quale si dispongono di misurazioni del particolato per 244 giorni, sono state riscontrate concentrazioni al di sopra del valore limite giornaliero per ben 33 volte». Dati inspiegabili. O forse no.
Dall’Africa alla Sila
La principale responsabile sembra essere la sabbia del Sahara. Ecco cosa hanno osservato gli studiosi di Monte Curcio: «Mentre i filtri campionati in corrispondenza di livelli di concentrazione bassi si sono presentati con colorazione per lo più grigio-chiaro, la maggior parte dei filtri corrispondenti ai superamenti registrati hanno mostrato prevalentemente sfumature di colore arancione». Da un’analisi più approfondita è venuto fuori che il particolato campionato proveniva dal deserto del Sahara.
I valori di concentrazione più alti sono stati rilevati tra la fine di giugno e i primi di agosto 2021. «Confrontando questi mesi del 2021 con gli stessi degli anni precedenti, in particolare 2016 e 2017 – dicono i ricercatori –, si è notato come nell’ultimo anno gli episodi di intrusione di dust sahariano siano stati non solo più frequenti ma anche più intensi. Tale evidenza è probabilmente da attribuirsi alla concomitanza di prolungate condizioni di ondate di calore che hanno caratterizzato l’estate 2021 e che, secondo quanto riportato nell’ultimo rapporto dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ndr), rappresenta una delle quattro categorie chiave di rischio climatico individuate per l’area del Mediterraneo».
Come queste polveri arrivino fin qui da noi lo spiegano ancora i tre studiosi: «L’intrusione di polveri desertiche di origine sahariana (saharan dust) è un fenomeno che si manifesta in concomitanza di particolari condizioni della pressione atmosferica a scala sinottica, che vedono solitamente la presenza di un anticiclone subtropicale africano, la cui espansione verso nord richiama le correnti sciroccali».
Anche le polveri naturali causano problemi
La normativa attuale, precisano, permette di sottrarre dal computo relativo alle concentrazioni di PM10 le polveri desertiche in quanto di origine naturale. Tutto tranquillo, dunque? Non proprio. Perché questo, a quanto pare, il loro non essere frutto di attività antropica non implica una mancanza totale di rischio per l’ambiente e la salute. «La loro deposizione sulla superficie delle foglie delle piante, ad esempio, ne inibisce la fotosintesi mentre sui pannelli solari ne determina la riduzione del rendimento», si spiega nell’articolo. E ancora, «l’esposizione alle polveri di origine desertica è stata inoltre associata a problemi di irritazione della pelle e degli occhi, a disturbi cardiaci e respiratori, oltre che ad una varietà di malattie infettive e non-infettive».
Le nuove linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità pubblicate nel 2021 – sottolineano Bencardino, Tassone e Mannarino – hanno introdotto una serie di buone pratiche che riguardano anche le sabbie e le polveri desertiche. Un aspetto ancora poco conosciuto per il quale si suggerisce di svolgere studi epidemiologici per valutarne gli effetti a lungo termine oltre a «un’opportuna caratterizzazione chimica da inserire all’interno dei più diffusi programmi di monitoraggio della qualità dell’aria». Un’attività, quest’ultima, che – affermano i tre ricercatori – è già in programmazione nella stazione di Monte Curcio e permetterà di misurare l’impatto delle polveri sahariane nelle concentrazioni totali di PM10.
Tanti processi legati tra loro
«D’altra parte, secondo la Wmo – evidenziano gli studiosi –, anche se l’intrusione di polveri desertiche è legata a processi di origine naturale, una buona parte è da attribuire alla sempre maggiore scarsità di acqua e all’aumento della desertificazione del suolo, entrambe conseguenza della cattiva gestione di queste risorse naturali nonché del riscaldamento globale, che nell’ultimo secolo, secondo un recente studio pubblicato su Journal of Climate, avrebbero comportato un aumento del 10% della superficie del Sahara».
Tutto torna, dunque. Cambiamenti climatici, riscaldamento globale, sfruttamento dissennato delle risorse naturali e l’allarme siccità che più che mai quest’estate risuona da un territorio all’altro – con rischi evidenti per l’ambiente, la salute e il lavoro di molti (con conseguenze negative per tutti) – non sono che facce di una stessa medaglia. Una medaglia che sempre più, in assenza di un vero cambio di rotta, sembra la classica monetina lanciata in aria a cui affidare il proprio futuro.