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Ci sono due montagne verdi e un cielo azzurro contro cui si agitano gli zoccoli di un maestoso cavallo bianco. Scalpita quel cavallo, indomito come la gente che rappresenta: il popolo di Bisignano che questo stemma lo guarda alla luce dell’oggi, delle vicissitudini più recenti e delle battaglie per il territorio e la salute che da tempo porta avanti. C’è l’eco di un no che rimbomba tra le colline di questo paese di nemmeno 10mila abitanti a pochi chilometri da Cosenza, un urlo che si è levato qualche anno fa e non si è ancora spento.
Perché quella di Bisignano è una storia di gente che vive e lavora, di eccellenze incastonate in quest’angolo di Calabria come quell’arte liutaria tramandata e resa famosa ovunque dai maestri De Bonis, o come i prodotti enogastronomici che in queste terre vengono messi a dimora e tirati su con cura e pazienza come la tradizione contadina insegna. Ma è una storia, anche, di veleni e paure, di rabbia e ribellione a qualcosa che rischia di offuscare – e addirittura di stroncare, in qualche caso – tutto il bello e il buono che c’è. Un neo tra l’azzurro e il verde dello stemma, una nota stonata, un sentore di marcio. Un agglomerato di cisterne e cassoni e silos che ha allungato un’ombra su questo territorio e che tra la gente del posto non ha mai smesso di generare dubbi.
Si tratta del depuratore adibito al trattamento di rifiuti liquidi pericolosi, gestito dalla Consuleco Srl, la cui presenza è al centro di un fuoco incrociato che da più tempo turba la quiete di queste colline: da una parte associazioni, rappresentanti politici e istituzionali e semplici cittadini che additano l’impianto come un mostro che sta uccidendo quello che c’è intorno; dall’altra gli amministratori della società che sostengono di aver svolto ogni attività secondo le regole. In mezzo, le alterne vicende giudiziarie che di qui sono passate. Due molto grosse: l’inchiesta lucana sul centro Eni di Viggiano nel 2016, che portò alle dimissioni dell’allora ministra del governo Renzi Federica Guidi e in cui finì coinvolta anche la Consuleco, poi assolta per mancanza di prove; più recentemente, a febbraio 2020, l’inchiesta cosentina denominata “Arsenico”, come una delle sostanze altamente inquinanti che, secondo quanto emerse dalle indagini, finivano dal depuratore nel fiume Mucone. Sostanze che qui sarebbero arrivate da impianti fuori regione come l’Ilva di Taranto o lo stesso Centro oli della Basilicata finendo senza alcun tipo di trattamento nelle acque del Mucone e da qui al Crati.
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