In Germania l’Spd vince le elezioni, non stravince, e tuttavia con il 25,7% recupera quasi 6 punti rispetto al 2017 e da risultati nei Lander nelle varie competizioni dov’era crollata fino al 15%. La Cdu-Csu si attesta poco sopra il 24%, perdendo oltre 8 punti rispetto alle politiche precedenti. Comunque la si veda, è evidente che pur in assenza di vittorie schiaccianti, l’elettorato tedesco ha dato un’indicazione rispetto al passato. I socialdemocratici dati tante volte per morti, estinti, nelle idee e nelle prospettive, dai soliti noti e stranoti politologi e commentatori che ormai da un trentennio ci profetizzano la fine del socialismo riformista pontificando di progressismo generico, di orizzonti oltre la sinistra (ovvero le solite analisi del nulla) ancora una volta sono stati smentiti dalla storia e dai fatti. E, tuttavia, confidiamo che spunteranno a parlare a vuoto chissà ancora in quanti altri talk a parcella. Questi sociologi del riformismo incolore, cioè, non ancorato ad una visione ideale, purtroppo per noi, non hanno il dono dell’autocritica.

Scholz: il rosso di governo

La realtà è un'altra. Olaf Scholz il leader dei socialdemocratici che potrebbe diventare il prossimo cancelliere della Repubblica Federale tedesca, ha 63 anni e fa parte della Spd dal 1975, dal 2018 è vicecancelliere e ministro delle Finanze della Merkel nella grande coalizione nata all’indomani delle precedenti elezioni. In precedenza era stato ministro del Lavoro, durante il primo governo Merkel. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Amburgo lavorò come avvocato occupandosi di diritto del lavoro. Scholz è noto per il suo pragmatismo, è un socialdemocratico moderato e quasi centrista.

E tuttavia, in campagna elettorale è riuscito a non perdere l’elettorato tradizionale di centrosinistra dell’Spd, ha insistito molto su politiche sociali tradizionalmente progressiste come l’aumento del salario minimo orario da 9,60 euro a 12 euro, l’aumento delle tasse sui redditi più alti, la proposta di una patrimoniale e la lotta al caro affitti. Insomma, il candidato della Spd è riuscito a destreggiarsi bene tra il mostrare un’immagine di sinistra e l’offrire un volto rassicurante e competente, riuscendo a convincere molti orfani merkeliani. Sholz ha fatto il suo mestiere: il candidato socialista. Una posizione non estemporanea, che è venuta fuori più volte nella sua lunga carriera politica. Da sindaco di Amburgo, infatti, si è caratterizzato nel tentativo di rendere Amburgo più sociale attraverso la creazione di nuovi alloggi, la diminuzione delle tasse per scuole e asili e maggiori investimenti sui trasporti pubblici. Oggi Sholz è un socialdemocratico moderato, eppure, gli anni della sua militanza giovanile quando faceva parte della organizzazione giovanile della Spd, gli Jusos, di cui diventerà vicepresidente nel 1982 si caratterizzò anche per idee di sinistra più radicali.

Dall’87 all’89 da vicepresidente della Jusy, il raggruppamento internazionale delle organizzazioni giovanili dei partiti socialisti, il giovane Scholz in alcuni articoli scritti all’epoca sui giornali pubblicati dalla Jusos, criticava l’atteggiamento imperialista della Nato e indicava nella Germania «il baluardo del capitalismo in Europa». Altri tempi e altri contesti. Eppure, nonostante il moderatismo imposto dai molteplici ruoli di governo e amministrativi che ha ricoperto, il probabile futuro cancelliere della Germania Sholz, non ha cancellato la sua caratterizzazione, quello di essere un uomo politico vincolato ad una visione socialista e riformista della società. Una visione che dovrebbe accompagnare ogni aspirante leader che si colloca a sinistra in Europa e, in particolare, nel nostro paese.

Il Pd che ha il complesso di fare la sinistra

In Italia, i dirigenti del Pd, invece, continuano ad avere una sorta di imbarazzo a caratterizzare il loro impegno in chiave socialista proponendo una piattaforma programmatica di grandi temi sociali, quello del lavoro, della tutatela dei diritti dei lavoratori, dei nuovi sfruttati, del reddito di cittadinanza, del drammatico problema della casa soprattutto nelle grandi aree urbane. Le battaglie del Pd, da questo punto di vista sono tiepide, tanto da passare inosservate alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica nazionale. Una parte degli eredi del vecchio Pci (questo è il grande paradosso) continua ad avere la sindrome di essere considerati comunisti (sic). Gli eredi della sinistra italiana di derivazione comunista hanno il complesso dell’appartenenza alla storia sociale di quella sinistra. Un grande problema.

La carenza d’identità del Pd, infatti, rappresenta l’epicentro di questo grande disastro culturale. Lo stesso professor Romano Prodi nei giorni scorsi ha tentato di farlo notare al suo ex allievo Enrico Letta. Una sinistra degna di questo nome non può pensare di surrogare con la battaglia sui diritti (Ius soli, Ddl Zan) l’assenza di una politica incentrata sulla battaglia per i diritti sociali, della tutela dei lavoratori. Il dibattito che si è aperto, in queste ore, in un pezzo di ceto dirigente del Pd, è surreale e demenziale, e prepara la strada a ripetere errori del passato. In passato hanno ragionato su quanto il Monti-pensiero dovesse essere parte integrante del pd. Risultato: è arrivata la valanga grillina.

Ora è iniziata la discussione sulla “draghizzazione” del Pd. Sembra un film già visto. Sul punto, Goffredo Bettini è indubbio che sia l’unico ad offrire un ragionamento per costruire una piattaforma non subalterna a Draghi, nella costruzione di una iniziativa politica autonoma della sinistra italiana. E ciò, rivela ancora una volta il vuoto identitario di un partito che non ha una linea e una visione culturale di società. Ci troviamo sostanzialmente di fronte ad un partito che non sa che pesci pigliare. Il leader dei socialdemocratici tedeschi, nel portare avanti la politica per i diritti sociali, non ha bisogno di sottolineare che il suo partito è il partito dei lavoratori ma anche delle imprese, a differenza di Enrico Letta, il quale, invece, lo sottolinea una volta sì e l’altra pure, evidenziando una coda di paglia verso il mondo del lavoro e un complesso di subalternità culturale al mondo delle imprese. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non essere in grado di rappresentare né i lavoratori né tantomeno le imprese.

Letta adeguato a dare identità alla sinistra italiana?

E, d’altronde, diciamocelo senza ipocrisie, ha ragione il collega Fusani sul Riformista quando afferma che il Pd non può più tenere insieme Irene Tinagli e Beppe Provenzano, i due vicepresidenti scelti da Letta, l’accademica di formazione liberal e il giovane ricercatore indicato dal compianto senatore Emanuele Macaluso come una delle migliori teste pensanti di stampo socialista e riformista del Pd. Una simile contraddizione non ha nulla a che vedere con la ricchezza del pluralismo interno. Significa, invece, perpetuare la drammatica condizione di non essere né carne né pesce. Il vero problema del Pd.

La domanda è la seguente: Enrico Letta sarà in condizione di tirare fuori il Pd dal grigiore identitario e culturale in cui si trova? A mio modestissimo avviso no. E ciò, con tutto il rispetto per la previsione semplicistica e riduttiva di Paolo Mieli, il quale, in un’editoriale sul Corriere della Sera, immagina per l’attuale segretario Pd un futuro roseo alla luce del risultato della Norvegia e della Germania. Il contesto politico della sinistra italiana è radicalmente diverso da quei paesi, al massimo quei segnali elettorali possono rappresentare la frenata della crescita delle destre populiste in Europa. La sfida che ha davanti il Pd, in Italia, è complessa e di portata epocale per la sopravvivenza della sinistra in questo paese.

Una sfida per la quale, Letta, purtroppo, non è adeguato, anche per sua storia e formazione politica. E ciò, al netto di Agorà e delle scempiaggini che, di volta in volta, s’inventano i leader ballerini del Nazareno, per sopravvivere il tempo di una stagione.

Separare per rilanciare

Bisogna prendere atto del fatto che, a 14 anni dalla sua nascita, il Pd, come contenitore in grado di far convivere armoniosamente più anime delle varie culture politiche riformiste italiane, ha fallito la sua mission. La strada maestra, dunque, potrebbe essere quella di separare le correnti di pensiero e, successivamente, unirle, attraverso una coalizione o un patto federativo, finalizzato ad un nuovo progetto di governo. Lo si chiami nuovo Ulivo, lo si chiami come lo si ritiene, ma bisogna ritornare ad una impostazione pre-Pd. L’unica volta che il blocco progressista ha vinto le elezioni, infatti, è stato il 1996 e, successivamente, il 2006. E il Pd non era ancora nato. Il Pd, negli anni successivi, ha governato sulla base di coalizioni o scomposizioni del quadro politico. Mai più, per mandato elettorale diretto.

Forse è arrivato il momento che si dia la possibilità alla famiglia socialista italiana proveniente dalla migliore tradizione del Psi e del Pi, di ricomporsi e articolarsi in un nuovo e moderno orizzonte socialista di stampo europeo, magari dentro la cornice della grande utopia di Altiero Spinelli: la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Un progetto politico magari da affidare alle cure di giovani come Beppe Provenzano. Stesso schema potrebbe valere per la grande famiglia del solidarismo e riformismo cattolico. E poi ci sono i verdi, che nelle politiche per governare la transizione ecologica potrebbero avere uno spazio politico importante, in tal senso, dalla Germania è arrivato un grande segnale.

Dal dialogo di queste correnti di pensiero, separate nella gestione della loro caratterizzazione e identità politica, e da altre componenti minori, potrebbe venir fuori un progetto di coalizione di governo che si candidi al dopo Draghi. La sinistra saprà cogliere questi segnali? E, soprattutto, avrà la forza, l’intelligenza culturale di predisporre una iniziatica catartica di questa portata e affrancarsi dal dibattito sterile e umiliante “draghizzazione” sì, draghizzazione no?