Dall’Ultimo “cacio” di Muccino che ha declassato la calabresità a rango di provolone, alla redenzione social di Lorenzo che ha fatto boom di like. Ma non basta rivendicare l’appartenenza a questa terra per essere artefici della sua fama
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Il 2020 è l'anno calabro di Gabriele Muccino. Il regista di fama internazionale, la cui perizia nel perlustrare gli ingorghi d'anima e i calcinacci dell'inconscio sentimentale dei quarantenni italici è nota ai più, partorisce un corto dalle ambizioni ben più ardite. L'idea è quella di investigare le inquietudini paraerotiche e similedipiche del bergamotto di Reggio Calabria; i rossori adolescenziali e i palpiti sommersi di una clementina coriglianese. Le pulsioni prorompenti del cedro di Scalea, tradizionalmente sciupafemmine.
Per la prima volta, gli agrumi diventano oggetto di scrutinio freudiano. Muccino celebra, contestualmente, la provola silana. Ne rinviene indizio dentro lo sguardo di Raoul Bova, assestando così un colpo durissimo al più inamovibile dei luoghi comuni: la virilità sbrigativa e ruvida del maschio calabro, a cui la sceneggiatura nega persino il rango di "provolone". Roba da Ultimo cacio alla carriera. Un disastro. L'opera in questione costa un milione e settecentomila euro di danaro pubblico, ma non produce alcunché sul piano del cosiddetto marketing.
Se gli avessero chiesto un supplemento di corto, il regista romano- probabilmente-avrebbe evocato l'orribile archetipo del calabrese emigrato a Quarto Oggiaro, con tanto di calzino bianco in ostaggio di un sandalo marrone a tripla fibbia, aggravato da borsello a tracolla lungo una canottiera, che lascia inabbronzato un pezzo di cingolo pettorale.
Dopo due anni, il colpo di scena. A mettere in salvo la reputazione della Calabria ci pensa Jova in Cherubini. Il Nostro certifica, grazie al suo smartphone, la sublime bellezza di Scilla. Dice testualmente: «Questo posto toglie il fiato». Lo fa con la efficace semplicità che gli è propria, senza interrogarsi sul misterioso movente della tormentata liaison tra il taciturno pesce spada della Costa Viola e la saccente cipolla caramellata di Tropea. Lorenzo ti "riscatta" in men che non si dica, devastando la teologia metatamarrica che consta di coppole e tovagliato a quadruccetti da trattoria muccinica. Una botta di vita che nemmeno Natuzza da Paravati!
Purtuttavia, lo sbraco mistico che attraversa la Calabria tutta, finalmente "redenta" dal Verbo cherubinico, rischia di sospingerci lungo l'abisso di un paganesimo provincialotto senza ritorno: il culto del feticcio Jovanotti in pellegrinaggio verso Gerace. Intendiamoci: l'endorsement di Lorenzo è cosa buona e giusta. Surclassa per immediatezza comunicativa i noiosissimi pippotti di certa politicanza. Funziona alla grande. A patto che non ingeneri, al di là delle buone intenzioni dell'artista, attese messianiche o trip meridiani presso tribù che "sballano".
Occorre recuperare uno sguardo di disincanto sul mondo e su noi stessi. Ridefinire il senso di "calabresità" perché non naufraghi nell'onda alta di un'estasi collettiva di carattere orfico. Bisogna costringere all'angolo le parole idolatriche della politica e del giornalismo. Infilzare tutte le retoriche sdrucite, tipiche della cronaca campanilistica d'ufficio. Quelle sì, oltremodo pacchiane. C'è di più: non basta salire a bordo dell'enorme popolarità di un talentuoso protagonista della musica italiana per proclamarsi titolari del proprio destino.
Qui non si tratta di rivendicare l'appartenenza di latitudine sic et simpliciter. Tantomeno, di subire l'ineluttabilità, ancorché magnifica, delle origini. Spetta a noi abitarle per evitare che queste ci abitino. Le origini, proprio quando muovono dalla potenza ipnotica della bellezza dei luoghi, devono farsi assertive, dispiegarsi, mutare in orizzonte mobile. Tutt'altro che scontato e definitivo. La calabresità, nel senso più laico del termine, non coincide con un fremito paesaggistico: è un disegno tutto da compiersi. Traiettoria di dignitoso protagonismo diffuso. Giammai pigra adesione a ciò che ci identifica in nome di un "patriottico" statuto geografico. La sfida, nonostante risulti impervia, è ineludibile. L'ha detto pure Checco dei Modà.