Da tempo una certa sinistra ha subappaltato alle Procure la lotta politica, salvo poi rendersi conto dell’errore quando chi indaga non guarda in faccia a nessuno. L’analisi di Antonella Grippo
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Il rapporto controverso tra politica e magistratura è da tempo materia sdrucciolevole, che reclama una minuziosa capacità d'analisi perché non si assecondino schemi di lettura ampiamente abusati. Non fidarsi di letture rinvianti ad un ruvido dualismo è cosa buona e giusta per chi abbia voglia di esplorare una rotta di collisione sciattamente licenziata, spesso, come guerra di avversi protagonismi di Stato. V'è da dire che la cronaca, nel caso di specie, non può dirsi "innocente".
Ammettiamolo con franchezza: i fatti sono lo sguardo di chi li descrive. Per questo, il più delle volte, cedono quote di "sovranità oggettiva." Io stessa, in qualità di giornalista, non mi presumo innocente, stante il tratto per nulla questurino della cultura che mi orienta e che governa ogni parola da me scelta sul tema di cui sopra. Vivo di totale illibertà nei confronti del background laico e libertario che mi ispira. Ne dipendo totalmente. Ed è una magnifica illibertà! Tutt'altro che ideologicamente illibata. Implicarsi nel racconto non è tradire la verità: significa, al contrario, crivellare la panzana della neutralità della stampa, in nome della quale si rischia di frodare, da storiografi dell'istante, la propria biografia. Ecco perché, relativamente al dualismo tra politica e magistratura, rivendico la faziosità più ardita: un sano, sanissimo pregiudizio circa le mancanti e mancate virtù dei magistrati, spesso percepiti, a torto, come creature di una genìa eletta senza macchia e senza peccato.
Del resto, le intercettazioni che afferiscono alle magnifiche gesta di Palamara e soci rappresentano un boccone amaro da deglutire per i cultori della Pubblica Accusa. L'inchiesta in questione disvela la contiguità tra interessi di parte e interventismo giudiziario. Altro che rotta di collisione! Siamo alla collusione. Il rito, in verità, è invalso da tempi molto sospetti. Trae origine dalla mattanza giudiziaria di Tangentopoli, che falcidiò, agli inizi degli anni '90, quasi tutti i partiti della Prima Repubblica. All'epoca, gli eredi senza titolo di Gramsci e di Togliatti scelsero di subappaltare alle Procure la lotta politica. Abdicandovi. Da Berlinguer all'ispettore Javert di Victor Hugo il passo fu breve. E così il Primato della politica finì maciullato tra le fauci del basic instinct delle masse sanguinarie. Con tanto di iconografia patibolare e di scure del boia reiteratamente esibite dalla ferocia di stampa.
Sennonché, a distanza di anni, qualcuno, a sinistra, deve essersi accorto che aver ceduto in "comodato d'uso" l'agire politico alle "anime belle" del potere giudiziario è stata un'ultrasonica minchiata. Fortemente autolesiva. E tuttavia, il vizietto, secondo la ricostruzione della vicenda Palamara, conserva una sua pervicacia. Certo, la magistratura non è un monolite. C'è chi se ne sbatte delle correnti, dei diktat di partito e preferisce, in totale autonomia, l'uscita in mare aperto: la tormentosa libertà. Quella che ti inoltra verso la tempesta perfetta a bordo del tuo ardimentoso sentire omerico.
Nicola Gratteri, ad esempio, è uno inarrivabile dalle pressioni di parte e insofferente al patrocinio di qualsivoglia parrocchia. Il che è tanta roba! Questo non vuol dire egli sia infallibile. Le idolatrie non giovano soprattutto a chi ne è destinatario. Ad ogni buon conto, relativamente ai perimetri di spettanza dei poteri dello Stato e con particolare riguardo alla fattispecie calabra, sopravvive il sospetto che la leadership "epidermica" di un magistrato presso diffuse sensibilità dell'opinione pubblica derivi proprio dalla scarsissima autorevolezza di un ceto politico dirigente, con le pezze al culo, incapace di rivendicare la dignità delle sue prerogative. Di garantire, per quanto gli compete, la magnifica, inviolabile tripartizione di Montesquieu. Un ceto di controfigure fatalmente fragile e "sottoscopa".